Io non dimentico
Antisemitismo: «Atteggiamento, politica ostile nei confronti degli Ebrei». Questa definizione mi ha fatto riflettere, soprattutto le parole «politica ostile». Politica ostile è per il protagonista de Il giardino dei Finzi-Contini vedersi negati dei diritti fondamentali, come quello all’istruzione, garantito a tutti dalla nascita. Politica ostile è vedersi emarginati, isolati, esclusi da una comunità che hai sempre considerato tua, considerato come una casa. Politica ostile è vedersi privati delle proprie libertà e volontà, costretti a vivere nell’oblio di una fredda indifferenza. Politica ostile è vedersi scaraventati su un treno, insieme a migliaia di persone, strappati dalle proprie abitazioni e privati della propria vita. Politica ostile è vedersi ridotti a un numero, privati della dignità, senza avere il potere di fare nulla.
Fotografie di alcune donne ebree appena giunte nel campo di Auschwitz.
Questo era l’antisemitismo per un ebreo della prima metà del Novecento, questo era il signficato dell’espressione «politica ostile». Il protagonista del romanzo di Bassani, Giorgio, era una persona comune, con sogni e aspirazioni; inizialmente cacciato da una biblioteca e alla fine imprigionato fortunatamente per un breve periodo in un campo di concentramento. Tale processo è stato graduale, lento e inesorabile, come lo scorrere di piccoli granelli di sabbia in un'enorme clessidra. Ognuno avrebbe potuto intervenire o dire qualcosa, tuttavia é stata preferita l’indifferenza. L’indifferenza che porta il peso di milioni di vite, terminate all’interno di una camera a gas senza il tempo di rendersi conto della situazione.
L’unico modo per evitare l’indifferenza è la memoria, una memoria che abbiamo il compito di custodire e di proteggere. Abbiamo il dovere di cogliere gli insegnamenti di chi ha vissuto queste terribili esperienze, come Primo Levi, che con Se questo è un uomo ha reso indelebili le esperienze vissute nei campi di concentramento. Abbiamo il dovere di ricordare tutti gli uomini e le donne privati della loro umanità, ridotti a pezzi di carne, ridotti a bestie da traino. Questo è ciò che è stato, l’unica cosa che possiamo fare è guardare negli occhi la realtà e affrontarla nella sua spietata crudeltà. Per costruire una memoria collettiva, però, è importante fare esperienza e documentarsi; ho avuto l’occasione di leggere alcune parti de Il libro della Shoah italiana: I racconti di chi è sopravvissuto, in cui Pietro Terracina narra le vicende di un storia molto simile a quella di Giorgio.
Al tempo della guerra Pietro era poco più che un bambino, costretto dalla sua maestra ad abbandonare la scuola. Abbandonare la scuola non significava solamente lasciare un edificio, ma lasciare un diritto, quello all’istruzione. Tutti potevano vedere ciò che stava accadendo, semplicemente non volevano, o preferirono rifugiarsi dietro l’ombra dell’indifferenza, come gli spettatori silenziosi che avevano assistito all’allontanamento di Giorgio dalla biblioteca. Questo mi rimanda alla mia visita al campo di concentramento di Ravensbrück, in tutto quell’orrore ciò che mi ha colpito di più è stata la posizione del campo; esattamente di fronte a un paesino turistico. Ogni anno centinaia di tedeschi giungevano in quel piccolo paese e nessuno di loro aveva mai avuto il coraggio di dire o fare qualcosa. Ogni giorno migliaia di corpi inceneriti venivano riversati nel lago di fronte al campo, lo stesso lago in cui molti turisti facevano il bagno, fingendo di non vedere quello che stava accadendo al di là dello specchio d’acqua. Migliaia di donne sono passate per quel campo e molte di loro non hanno avuto la possibilità di lasciarlo.
Un’italiana, Lidia Beccaria Rolfi ha deciso di far conoscere la sua testimonianza e quella di altre detenute attraverso il libro Le donne di Ravensbrück. Alcune parti di questi racconti mi hanno particolarmente toccato, soprattutto quelle riguardanti la perdita della dignità umana: un sentimento indispensabile per sopravvivere in quei luoghi infernali. Alla fine della guerra molte persone si mobilitarono per restituire dignità umana ai detenuti; un soldato britannico, presente alla liberazione del campo di Bergen Belsen racconta di un fatto davvero curioso. Nel suo diario, il soldato Mervin Willerr Gonin, narra che pochi giorni dopo la liberazione dei campi arrivò un mezzo della croce rossa contenente dei rossetti rossi; inizialmente tutti si erano domandati quale fosse l’utilità di quegli oggetti, eppure furono proprio quelli a essere la salvezza per numerosi internati. Mervin racconta che quei rossetti furono il primo passo per restituire dignità e umanità a chi si era dimenticato del proprio nome lasciando spazio solamente a un numero.
Giorgio Bassani, con il suo romanzo, Lidia Beccaria Rolfi, Pietro Terracina e Mervin Gonin, con le loro testimonianze, si sono sentiti in dovere di raccontare tutto questo, dalla negazione del diritto all’istruzione a quella del diritto alla vita, testimoniare ciò che gli ebrei non potevano dire, ciò che i tedeschi non volevano ammettere, ciò che i cittadini non volevano vedere. Tutto ciò che poteva essere riassunto in due parole: politica ostile. Tutto ciò che era riassunto in un termine: antisemitismo.
Le scarpe dei detenuti di Auschwitz.
G. Poli
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