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Writer's pictureRedazione di Carliweek

DIRITTO E ROVESCIO (2^ pt.)

Dalla caduta dell’impero romano d’Occidente fino all’Ottocento, l’Italia è stata occupata da stranieri, che venivano qui per curare i propri interessi, non per ben governare. Fino alla proclamazione del Regno d'Italia (1861), era normale che i cittadini vivessero lo Stato come un corpo estraneo, a cui si doveva obbedire per paura e non per volontaria decisione.

Dopo l’unificazione, un primo passo importante per la coesione popolare è stata l’estensione a tutta l’Italia dello Statuto Albertino, la prima costituzione italiana. Esso ha trasformato la monarchia da assoluta a costituzionale, suddividendo i poteri dello Stato in tre organi: il potere legislativo era affidato al re e al Parlamento; il potere esecutivo, per consuetudine, spettava al re, ma di fatto lo gestiva il Governo; infine, il potere giudiziario era nelle mani di giudici nominati dal re, con a capo il Ministro Guardiasigilli.

Tuttavia, come in tutti gli ordinamenti ottocenteschi, la grande borghesia, una volta conquistato il potere politico, cercò di limitare le libertà democratiche: coerentemente con questa affermazione, la prima legge elettorale prevedeva la possibilità di elettorato, sia attivo sia passivo, solo agli uomini di età superiore ai venticinque anni, che sapessero leggere e scrivere e che fossero soggetti a un'imposta sul reddito di almeno quaranta lire.

Così, nel 1861, su un popolo di quasi 22 milioni di italiani, gli elettori raggiunsero la soglia di 400mila cittadini; inoltre, gli analfabeti, le donne e le persone con reddito troppo basso erano esclusi a priori. Queste limitazioni, però, non bloccarono la richiesta di maggiore democratizzazione, proveniente dalle classi sociali più basse e vaste della società italiana.

Bisogna aspettare il 1946 perché il suffragio universale venga concesso.


Il 2 giugno 1946, gli italiani vennero chiamati a presentarsi ad un referendum istituzionale. Quest’ultimo chiedeva l’espressione di un duplice voto: con una scheda, i cittadini dovevano decidere se lo Stato avrebbe dovuto mantenere la forma monarchica o assumere quella repubblicana; con l’altra, invece, dovevano eleggere i componenti di un’Assemblea costituente che avrebbe redatto una nuova carta costituzionale.

Questo voto costituì l’atto di fondazione di un nuovo Stato e gli italiani parteciparono all’evento in modo massiccio: alle urne si recò l’89% degli elettori.

Fu una situazione straordinaria: per la prima volta in Italia, era il popolo, con sua libera scelta, a conferire legittimità alle istituzioni.

Senza dubbio, la scelta repubblicana segnò un passo importante nella costruzione del nuovo Stato, ma non fondamentale: non é la presenza o l’assenza di un re ciò che conta nella vita di un Paese. Ciò che realmente importa, nella connotazione di uno Stato, è il modo in cui la Costituzione organizza l’esercizio dei poteri pubblici e tutela i diritti fondamentali dei cittadini: eleggendo i membri dell’Assemblea costituente, dunque, gli italiani sceglievano le errore e i partiti politici ai quali avrebbero dato il loro futuro: ecco il voto cardine.

La nuova Costituzione italiana entrò ufficialmente in vigore il 1° gennaio 1948.


L’Italia è ormai, da più di 150 anni, un Paese libero e indipendente e, da oltre 70 anni, una repubblica democratica: la storia politica travagliata non può più costituire una giustificazione senza limiti di tempo. Allora, che cosa manca perché si stabilisca una leale collaborazione tra lo Stato e i cittadini?

A mio avviso, ciò che manca è uno Stato apparato ben funzionante, capace di trasmettere fiducia nelle sue scelte e di essere corretto verso i cittadini. Credo che l’esperienza quotidiana, unita alle informazioni che ci giungono di inchieste giornalistiche e giudiziarie, testimoni la lontananza da un modello simile. Tuttavia, questo non può comunque giustificare il permanere in una società di comportamenti anarcoidi, motivata dal fatto che una parte della rappresentanza politica non è costituita dalle “persone più commendevoli”.

In un Paese democratico, la classe politica è scelta periodicamente dai cittadini ed è selezionata tra i cittadini. Pertanto, essa è lo specchio della collettività che l’ha eletta! È semplice: se la collettività vuole cambiare lo Stato, allora essa deve compiere un “salto culturale.

Ciò significa, ad esempio, partecipare più intensamente alla vita politica e battersi per modificare le leggi ritenute ingiuste, piuttosto che aggirarle.

L’esperienza insegna che il primo passo è aggirare le leggi ingiuste, il secondo è aggirare le leggi che non ci fa comodo rispettare e l’ultimo è quello di eleggere una classe politica tollerante, sulla quale riversare, in seguito, le colpe del cattivo funzionamento dello Stato.

Da questo circolo vizioso, si esce solo se chiunque comincia a domandarsi: che cosa faccio io perché lo Stato funzioni al meglio? Le persone che eleggo, sono le persone più adeguate per tutelare me e le mie idee?


Grazie all’elettorato, una settantina di anni fa, abbiamo sovvertito la nostra forma di Governo ed eletto politici che ci hanno riconosciuto dei diritti.

Il verbo “riconoscere” è fondamentale: l’Assemblea costituente ha solo riportato su carta dei diritti che sono nati con noi; non li ha conferiti o concessi, come aveva fatto il re Carlo Alberto nello Statuto Albertino.

Nel secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione si legge: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Il popolo, quindi, è il primo organo costituzionale, l’organo originario da cui deriva la sovranità. L’ordinamento, menzionando il popolo, si riferisce al corpo elettorale, cioè a quella parte dei cittadini a cui è riconosciuto il diritto di voto.

Non a caso si dice che andare a votare sia un diritto, ma soprattutto un dovere.


Sul prossimo numero di Carliweek, vi diamo appuntamento per la prossima puntata!

I. Consolini


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