top of page

Donne nell’arte: Artemisia Gentileschi

Mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi, pure cercavo di strillare meglio che potevo. E li sgraffignai il viso e li strappai i capelli, […] con tutto ciò lui non stimò niente e continuò a fare il fatto suo.

È con tale crudezza e dovizia di particolari che l’artista Artemisia Gentileschi denuncia la violenza carnale subita da parte di Agostino Tassi nella sua prima deposizione a processo, più di quattro secoli fa e quasi un anno dopo l’atto. L’evento si trasforma in più occasioni in uno strumento di diffamazione di Artemisia: vista con sospetto per aver taciuto per tanto tempo, è ritenuta consenziente dall’opinione pubblica e la violenza viene giudicata più come motivo di vergogna per la famiglia dell’artista che violazione nei confronti della stessa, tuttalpiù considerata solo quando Agostino Tassi confessò di essere sposato e di non poter dunque “riparare” l’onore della famiglia Gentileschi sposando Artemisia.


Tuttavia, in un’epoca in cui le vittime di stupro venivano considerate «poco di buono» e «tentatrici», Artemisia non si diede per vinta: portò avanti la denuncia per sette mesi, sopportando maldicenze e umiliazioni di ogni genere. Fu disposta a mettere in serio pericolo il ruolo di pittrice che aveva faticosamente conquistato, sia per la sua dignità — ormai a Roma era considerata alla stregua di una prostituta — sia per la tortura dei sibilli, che vedeva i pollici legati con delle cordicelle, strette sempre di più, a cui era stata sottoposta per spingerla a ritirare l’accusa. Artemisia riuscì a vincere la causa, ma la sofferenza legata alla violenza subita non svanì con l’esilio del suo aggressore. Al contrario, nelle sue opere il soggetto principale diventò quell’essere che l’aveva violata e il cui pensiero ancora la ossessionava, così come il suo desiderio non di condannarlo, bensì di ucciderlo.


«Ti voglio ammazzare con questo coltello che tu m’hai vittuperata», gridò ad Agostino Tassi un attimo dopo la violenza, ed è proprio in uno dei suoi quadri più celebri, Giuditta che decapita Oloferne, che l'artista sfoga il suo desiderio di rivalsa e il disprezzo nei confronti dell’uomo il cui volto è ritratto in quello dell’uomo sgozzato da Giuditta senza pietà: la testa afferrata per la chioma, la spada che affonda nel collo. Artemisia non esitò a rappresentare il dettaglio cruento del sangue che schizza copiosamente fino a macchiare le vesti della stessa che, con un simile atto, portò Israele alla liberazione dall’assedio, così come Artemisia desiderava liberarsi di quell’uomo la cui morte tanto bramava. Lo stesso atto venne ritratto dall’artista in un’altra opera, Giaele e Sisara, che ritrae la storia narrata nel libro dei Giudici secondo cui Giaele, dopo aver attratto nella propria tenda Sisara, lo uccide nel sonno conficcandogli un chiodo nel cranio con un martello. Tuttavia, la scena non assume toni tragici ed è pervasa da un'atmosfera calma: il viso di Giaele è rilassato, come se stesse per accingersi a un'azione consueta e la leggerezza dei suoi gesti nasconde lo sforzo necessario ad assestare il colpo di estrema violenza.


Le donne rappresentate da Artemisia sono dunque ben lontane dai canoni dell’epoca, secondo i quali potevano avere solo due aspetti: distaccato e angelico o terreno e corrotto. Sono bensì volti femminili autentici, strappati alle interpretazioni maschili di mero oggetto sessuale; volti attivi, disposti a reagire alle ingiustizie e a far sentire la propria voce, proprio come la stessa Artemisia.


S. Tortora

3 views0 comments
bottom of page