top of page
Emilia Pasini

Il lavoro in Italia e all'estero

L’art. 1 della Costituzione italiana afferma che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro; nell’art. 4 si aggiunge che ogni cittadino ha diritto al lavoro; l’art. 35 stabilisce che la Repubblica tutela il lavoro e cura l’elevazione professionale dei lavoratori; l’art. 36 afferma che ad ogni lavoratore deve essere garantita una retribuzione proporzionata al suo lavoro, definisce un limite massimo alle ore lavorative e stabilisce il diritto al riposo e alle ferie retribuite; nell’art. 37 viene spiegato che la donna è pari all’uomo in ambito lavorativo e si definisce che può esistere il lavoro minorile; l’art. 38 stabilisce che ogni cittadino senza requisiti per lavorare ha diritto al mantenimento; l’art. 40 conferma il diritto allo sciopero.


Sulla base di questi articoli, i principali tra quelli che regolano l’organizzazione lavorativa della Repubblica italiana, si possono fare innumerevoli riflessioni filosofiche, politiche, economiche o sociali sulle varie questioni e problemi che si presentano nel mondo del lavoro e che contraddicono gli articoli sopra riportati; in questo testo affronteremo proprio questa tematica. Ad esempio: è vero che esiste una concreta tutela per tutti i lavoratori? È vero che ogni lavoratore viene retribuito adeguatamente? È vero che le donne sono pari all’uomo in ambito lavorativo? Per quanto poco io ne sappia, ci tengo ad esprimere brevemente il mio parere riguardo a queste ampie tematiche.


L’art. 35 suppongo che sia il meno rispettato, infatti la tutela dei lavoratori scarseggia in certi ambiti, soprattutto in quelli più umili, come per i muratori o gli operai. Altro tema molto discusso è quello della retribuzione, che spesso non soddisfa il lavoratore, che fa fatica ad arrivare a fine mese; nei casi più gravi si arriva a parlare anche di vero e proprio sfruttamento. Anche per quanto riguarda la parità dei sessi ci sarebbe molto da discutere: è noto che noi donne dobbiamo ancora batterci per ottenere quel rispetto che spesso viene trascurato.


Tuttavia — tranne che per il secondo punto che è sempre stato, e secondo me sempre sarà, forte tema di lotta e discussione — si stanno facendo progressi: grazie in parte alla globalizzazione, ma soprattutto perché la mentalità della società è in mutamento e cambia enormemente di generazione in generazione.


Cionondimeno, mentre da un lato si risolvono alcuni problemi dall’altro se ne creano di nuovi. Un esempio molto attuale è la forte mancanza di lavoratori nel settore di ristorazione e commercio — che sono aree perlopiù sottopagate e con contratto a tempo determinato — perché i giovani d’oggi vogliono il meglio per se stessi e non si accontentano.


Ora, spostandosi su un punto di vista globale, ci si può porre le medesime domande anche per i paesi esteri, per osservare quante differenze ci siano in ambito lavorativo e dei diritti tra paesi ricchi e poveri.


Approfondire tutte le tematiche appena elencate, dalla prospettiva italiana e poi da una prospettiva mondiale, sarebbe un lavoro estremamente lungo e impegnativo, perciò in questo testo mi soffermerò solo sulle condizioni lavorative nei paesi più poveri del mondo.


Partiamo col cercare di individuare quali nazioni e macroregioni abbiano le peggiori condizioni di lavoro. A livello di aree il Medio Oriente e il Nord Africa sono tra le regioni più problematiche; per fare solo alcuni esempi, l'Egitto ha sciolto le organizzazioni sindacali indipendenti e l'Arabia Saudita continua a tenere milioni di lavoratori in condizioni di moderna schiavitù.


Algeria, Bangladesh, Brasile, Colombia, Guatemala, Kazakistan, Filippine, Arabia Saudita, Turchia e Zimbabwe: questo è l’elenco stabilito nel 2019 dal Global Rights Index dei dieci Paesi peggiori in cui lavorare, per le pessime condizioni di sicurezza e i salari infimi fondati sullo sfruttamento. In particolare Brasile e Zimbabwe, che adottano leggi regressive e una violenta repressione degli scioperi e delle proteste. In Paesi come l'Iraq, la Libia, la Siria e lo Yemen, i lavoratori non hanno alcuna garanzia sui diritti del lavoro.


Approfondiamo la situazione in Bangladesh, che mi interessa particolarmente perché dipende principalmente dall'industria tessile e del fast fashion — un mercato di cui la maggior parte di noi usufruisce — sinonimo di scarsa retribuzione e sfruttamento minorile.


Circa tre milioni e mezzo di lavoratori, l'85% dei quali sono donne, lavorano troppo a lungo e con una paga troppo bassa; per questo spesso sono costrette a far lavorare anche i figli piccoli, che sacrificano la loro infanzia e la loro istruzione per aiutare il mantenimento della famiglia. Inoltre, lavorano in ambienti poco igienici e pericolosi senza alcuna protezione, in edifici a rischio di crollo o incendio: dal 1990 sono morte migliaia di persone a causa di queste condizioni. Inoltre le donne lavoratrici sono frequentemente soggette a molestie sessuali e altre forme di sessismo sul posto di lavoro, ma non ricevono alcun tipo di giustizia perché non vengono ascoltate e se si ribellassero metterebbero a rischio il loro posto di lavoro.


Le cause di questi problemi sono molteplici; credo però che alla radice ci sia il fatto che si tratta di paesi in via di sviluppo, dove la grandissima maggioranza della popolazione vive in povertà, senza potersi quindi ribellare e senza avere la possibilità di trovare condizioni migliori in cui vivere.


Per questo io vedo (parere personale, su questo tema dovrei approfondire ulteriormente) le società dei paesi poveri come sottomesse, non solo dalle manovre di mercato dei paesi ricchi — che spesso fanno finta di interessarsi al problema, ma di fatto poco o nulla risolvono — ma anche da se stessi: i governi dei paesi poveri funzionano male e sfruttano l’ignoranza e la poca possibilità d’azione del popolo che, oppresso ed emarginato per la bassa qualità della vita, non ha reali opportunità di migliorare la sua condizione, sapendo che se provasse a ribellarsi verrebbe solo represso dai potenti.


E. Pasini

8 views0 comments

Comments


bottom of page