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In cerca di risposte

Era una calda serata di luglio e mi trovavo sul treno di ritorno da Milano verso Brescia, quando sul sedile di fronte al mio, rimasto sino ad allora libero, si sedette un uomo molto alto e robusto che si rivolse a me in lingua inglese, ma con accento chiaramente americano. Mi disse che era di ritorno dall’Hangar Bicocca di Milano dove aveva appena visitato la mostra denominata Breath, Ghosts, Blind di Maurizio Cattelan, un importante artista italiano contemporaneo di fama internazionale, la cui peculiarità principale risiede nell’abilità di combinare le arti figurative con straordinarie performance.

Incuriosito e stimolato dalla conversazione, essendo intenzionato io stesso a visitare la mostra, gli chiesi la sua opinione a riguardo. L’uomo delineò le caratteristiche principali della mostra e mi spiegò che l’esposizione era composta da tre opere, l’ultima delle quali, a suo avviso la più eclatante, era stata realizzata in memoria dell’11 settembre 2001, ossia il giorno che sconvolse il mondo, inducendo l’umanità ad interrogarsi sul senso della vita. Nelle sue parole colsi una certa emozione.


All’esterno dell’Hangar, precisamente sul tetto dell’edificio — mi disse l’americano — erano posati alcuni piccioni imbalsamati che parevano attendere il visitatore per accompagnarlo nella visita. Gli ricordai che i piccioni erano già stati utilizzati da Cattelan in altre sue opere, tra cui il celebre Tourist, opera esposta nel 1997 alla Biennale di Venezia.

L’uomo mi descrisse il suo stupore nel momento in cui era entrato nella prima sala, che pareva buia e misteriosa, e si era imbattuto in una scultura umana di marmo bianco adagiata sul pavimento in posizione fetale; di fronte a lui era steso un cane, anch’esso in marmo. Il mio interlocutore disse che non aveva compreso se si trattasse della rappresentazione di due cadaveri, oppure se i due stessero solo riposando, oppure scappando, o ancora se stessero solo respirando. Mi mostrò una fotografia dell’opera e ne rimasi colpito. Di fronte ai suoi dubbi non trovai immediatamente una risposta, ma iniziai a riflettere e ipotizzai che l’opera illuminata nel buio della sala potesse rappresentare un dolce momento di compagnia tra l’uomo e l’animale. Forse Cattelan desiderava raffigurare l’armonia tra l’umanità e la natura, unica ricetta per sopportare sia le ferite della storia, sia quelle della vita personale.


Nel secondo ambiente mi raccontò di aver ritrovato nella penombra diversi piccioni, trattati secondo la tecnica della tassidermia (ovvero un trattamento che consente di conservare i corpi degli animali deceduti), appollaiati su grate e fissati in alto alle pareti dell’Hangar. Tuttavia, anche in questo caso l’uomo non era sicuro a che cosa questi effettivamente alludessero: potevano essere i sopravvissuti all’attentato terroristico? Le vittime sepolte dal crollo delle torri? Fantasmi che osservavano dall’alto? I poveri suicidi gettatisi dalle torri per scappare dalle fiamme? Ricordai di aver letto che Cattelan non intende mai attribuire un significato preciso alle proprie opere, in quanto preferisce che esse possano resistere al tempo e siano, quindi, prive di riferimenti narrativi databili.

Mi raccontò poi che nel terzo ambiente l’artista aveva costruito un parallelepipedo minimale, nero, molto alto ma anche piuttosto tozzo, dal quale fuoriuscivano ali, muso e coda, così da rappresentare un aereo stilizzato. Ciò che l’aveva colpito maggiormente era l’impiego di un'unica tipologia di materiale, infatti la torre e il velivolo appartenevano a un volume unico. Inoltre, mi spiegò che l’aereo non era affusolato e che le proporzioni dell’insieme ricordavano quasi un logo pubblicitario. Per di più, constatò che anche in quell’ambiente erano presenti altri piccioni imbalsamati, posti al di sopra di un supporto che sovrastava la scena.

Infine, mi disse che era rimasto parecchio perplesso, in quanto nella mostra aveva trovato solo opere statiche, mentre si sarebbe atteso di trovare maggiori riferimenti astratti e spirituali. Nonostante non avessi visitato l’esposizione, pensai che l’artista avesse realizzato delle opere assai sorprendenti e commoventi, contrariamente a ciò che credeva il mio interlocutore.


Mentre stavamo ancora discutendo, l’uomo si rimboccò improvvisamente le maniche della camicia e vidi spuntare dal suo braccio sinistro un tatuaggio che raffigurava un albero molto particolare. In quel preciso momento, ricordai di avere letto che, trascorso un mese dagli attacchi alle Twin Towers, era spuntata un’inaspettata forma di vita dalle macerie fumanti del World Trade Center. Si trattava di un gigantesco albero da frutto, un pero alto otto metri, piantato nel 1970 nei pressi di Church Street che era miracolosamente sopravvissuto all’esplosione. Aveva il tronco bruciato, i rami spezzati e in larga parte carbonizzati, ma era ancora in vita. Si decise di trapiantarlo in un parco del Bronx affinché potesse prendere vigore. L’albero crebbe fino a raggiungere un’altezza di circa trenta metri e alla vigilia di Natale del 2010 fu riportato nel suo luogo d’origine per essere trapiantato nel cuore del 9/11 Memorial di New York.


Ormai non avevo più dubbi: era proprio quello l’albero raffigurato nel tatuaggio dell’americano. Fui tentato di chiedere conferma della mia deduzione, ma attesi qualche istante. Alla fine cedetti e gli posi il quesito: egli, non senza commozione, mi rispose che effettivamente il suo tatuaggio raffigurava quel simbolo e presto realizzai di trovarmi davanti a uno dei sopravvissuti dell’attentato alle Torri Gemelle. L’uomo era giunto in Italia per visitare la mostra dedicata a quel tragico evento con il fine di cercare risposte che non aveva trovato da oltre vent’anni. Risposte che, a quanto pare, non era ancora riuscito a trovare.


D. Gregorini


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