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Le proteste anti-golpe in Myanmar

Se la situazione al termine della Seconda guerra mondiale non era affatto favorevole per i paesi europei, anche nell’allora Birmania l’arrivo delle potenze straniere non aveva portato grandi benefici. Durante l’Ottocento, dopo essere stata annessa all’India britannica a seguito di tre guerre, gli equilibri del Paese vennero completamente sconvolti: si assistì, infatti, a un netto aumento della produzione per l’esportazione, alla costruzione di nuovi sistemi di comunicazione, a una deforestazione di parte del territorio e all’edificazione di scuole e università. Per di più, nel 1937 gli inglesi importarono anche parte del loro sistema democratico, estendendo il diritto di voto alle donne alfabetizzate, novità che privò l’aristocrazia feudale e il clero buddhista dei loro privilegi. Le ostilità createsi furono tali che, al loro arrivo nel 1942, i giapponesi furono accolti come liberatori, finché la loro violenza non reindirizzò le preferenze verso gli Alleati, che riconquistarono il paese nel 1945 con l’aiuto dell’AFPFL, lega antifascista guidata da Aung San.


Quest’ultimo, nel 1947, divenne vicepresidente del Consiglio esecutivo della Birmania in un governo transitorio e, sebbene nello stesso anno venne assassinato insieme ad altri membri politici da alcuni rivali, fu protagonista dell’accordo con il primo ministro inglese dell’epoca, Clement Attlee, nel sancire l’indipendenza della Birmania a partire dall’anno seguente. Nel 1948, infatti, la Birmania divenne una repubblica indipendente, seppur tra guerriglie e repressioni contro minoranze etniche richiedenti uno stato federale. È nel 1962, però, che la storia ci ricorda il presente. Proprio in quell’anno, infatti, il generale Ne Win guidò un colpo di Stato che gli permise di governare per ventisei anni, fino al 1988, durante un periodo di dichiarato regime militare socialista, in cui ogni altro partito venne soppresso e la Birmania si isolò dal resto del mondo, in seguito a politiche di nazionalizzazione delle industrie. Questi anni, caratterizzati da gravi situazioni economiche, videro numerosi tentativi di scioperi e protesta contro il regime, sfociati sempre in violente repressioni a colpi di arma da fuoco, in cui diverse migliaia di persone persero la vita. Fu nel 1988 che, a seguito di una protesta con oltre 3 000 morti civili, fu orchestrato un finto colpo di stato che portò alla creazione di un Consiglio di Stato, il quale promise delle elezioni in tre mesi. Fu in questo periodo che si creò il partito leader ancora oggi, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), capeggiato da Aung San Suu Kyi, figlia di Aung San, eroe dell’indipendenza. Sebbene nel 1989 fu costretta agli arresti domiciliari, le elezioni del 1990 videro il suo partito stravincere con il 72,6% dei voti totali. Tuttavia, i militari bloccarono le normali procedure politiche e, poco tempo dopo, arrestarono i principali membri del partito. Fu così che riprese un periodo di regime militare, durante il quale altre proteste presero piede (note sono le manifestazioni della “rivoluzione zafferano”, guidate dai monaci) e gli avversari politici vennero incarcerati o tenuti ai domiciliari, come la nota Aung San Suu Kyi, riconosciuta con il premio Nobel per la pace nel 1991.


Finalmente, nel 2010 si può dire che ebbe inizio il processo di democratizzazione dello Stato: sebbene le prime elezioni per costituire l’Assemblea Legislativa Nazionale, vinte dai militari, furono, come conferma l’ONU, non attendibili, in seguito alle pressioni di altri paesi Aung San Suu Kyi fu rilasciata dopo ventidue anni dai domiciliari e importanti riforme politiche e sociali furono introdotte, tra cui il rilascio di numerosi prigionieri politici e la liberalizzazione dell’economia, grazie alle quali gli Stati Uniti e altri paesi occidentali alleviarono notevolmente alcune sanzioni economiche imposte da tempo. È il biennio 2015-2016 che segna la svolta: nelle prime elezioni libere dal 1990, l’NLD vinse abbondantemente, formando così un nuovo Parlamento che elesse l’economista Htin Kyaw come primo presidente civile dopo cinquant’anni e Aung San Suu Kyi come ministro degli affari esteri. Da allora, i paesi occidentali hanno continuato ad alleviare sempre di più le imposizioni economiche verso il Myanmar. Se per il Paese, e non solo, questa poteva sembrare una rinascita, le elezioni di novembre 2020 ne erano un’ennesima conferma: l’NLD, infatti, ottenne una vittoria ancora più schiacciante sull’USDP, partito sostenuto dai militari. Sebbene ci fossero alcune contestazioni da parte dei militari, per presunti brogli, il clima sembrava ancora favorevole.


Eppure, venendo all’attualità, il 1º febbraio, proprio il giorno della conferma finale, quando il Parlamento si sarebbe dovuto riunire per la prima volta dopo le elezioni, una situazione simile a quella del 1962 si è verificata: l’esercito, guidato dal generale Min Aung Hlaing, ha bloccato la principale strada che conduce al Parlamento e arrestato i parlamentari dell’NLD, sospendendo tutte le linee telefoniche delle principali città e le trasmissioni televisive di tutto il Paese. Il generale Hlaing ha assunto immediatamente il ruolo di capo del governo, formandone un altro con undici ufficiali dell’esercito come ministri, e ha dichiarato uno stato di emergenza di un anno, annunciando che avrebbe garantito un sistema democratico multipartitico e delle nuove elezioni, senza specificare una data. Mentre centinaia di parlamentari sono stati tenuti rinchiusi per oltre due giorni in una struttura governativa, la leader dell’ormai opposizione, Aung San Suu Kyi, è stata portata in un luogo sconosciuto. Dal giorno successivo, alcuni attivisti locali hanno incoraggiato la popolazione a protestare pacificamente, facendo rumore alle otto di sera, con clacson, tamburi e vari utensili. Il 3 febbraio, due giorni dopo il colpo di Stato, i medici e gli infermieri di più di settanta ospedali in tutto il Paese hanno iniziato una serie di proteste di disobbedienza civile. Di lì a poco, la situazione è sfociata in vere e proprie proteste su numeri di ben più ampia scala che, pur rimanendo sempre pacifiche, hanno paralizzato diverse città del Paese. È stata inoltre segnalata dall’ambasciata americana in Myanmar un’interruzione delle comunicazioni durante la notte.


Tuttavia, come prevedibile se si ricordano le proteste del 1988 e della rivoluzione zafferano, i militari non hanno aspettato molto ad aprire il fuoco: dopo circa quattro settimane di protesta, il 27 febbraio si è assistito al dispiegarsi di un’ondata di violenza: dopo tempo che mezzi blindati giravano per le città, le forze dell’ordine, insieme alla polizia e ai soldati, hanno iniziato a sparare ripetutamente contro la folla, ben oltre ogni limite giustificabile come necessario per mantenere l’ordine. Tra gas lacrimogeni, pallottole di gomma e proiettili veri, si è arrivati a circa una ventina di morti, decine di ricoverati (per colpi di arma da fuoco o ferite dei manganelli) e centinaia di arresti. Ad oggi, così come le proteste e gli scioperi sono sempre più frequenti, anche il bilancio di detenuti e deceduti è sempre più alto, con oltre 2 175 arresti di cui non si sa nulla e più di 149 morti tra i manifestanti (dato dichiarato dall’ONU). In particolare, il 3 marzo anche Kyal Sin ha perso la vita. La ragazza diciannovenne, conosciuta in Myanmar come Angel, era diventata un simbolo delle proteste, per la sua forza e per la sua maglietta con la scritta “Andrà tutto bene”. Come se non bastasse, dopo un funerale a cui moltissimi avevano partecipato, la polizia ha fatto irruzione nel cimitero durante la notte, riesumando il corpo (una pratica considerata molto irrispettosa nella cultura locale) per verificare una seconda autopsia, secondo la quale, il proiettile causa del decesso non apparterrebbe ai corpi di polizia. L’accaduto non ha fatto altro che procedere a fomentare ancora maggiormente la convinzione e la determinazione dei manifestanti per riottenere la democrazia. La popolazione, che continua a organizzare scioperi in settori produttivi, a differenza delle precedenti proteste, sa che cosa succede nel resto del mondo e non si sentono soli: anche nel gridare alzano tre dita, simbolo proveniente dalla serie Hunger Games, come già facevano i manifestanti di Hong Kong, Thailandia e Taiwan.


Nonostante ciò, grandi aiuti da parte dei Paesi occidentali per adesso non sembrano ottenere gli effetti desiderati. Oltre ai singoli commenti di disapprovazione da parte di diversi politici come Boris Johnson, gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno imposto sanzioni contro i dirigenti della giunta militare, ma il loro impatto politico rimane quasi nullo. Il problema maggiore pare essere la Cina: così come nella guerra siriana di un decennio fa la Russia si oppose alla volontà del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, oggi è la Cina a tenere in stallo la situazione. L'ONU, infatti, si è limitato a una “dichiarazione presidenziale” che condanna le violenze dei militari, siccome Cina, Russia, India e Vietnam si sono opposti a possibili sanzioni contro la giunta militare del Paese. In seguito a questi rallentamenti e opposizioni a una risoluzione ONU, Pechino ha denunciato trentadue aggressioni a fabbriche cinesi a Rangoon. La Cina, infatti, è percepita dai manifestanti come un alleato dei militari, anche a causa di notizie di parecchi voli notturni tra Cina e Myanmar dopo il golpe, sebbene gli aeroporti e le vie aeree fossero bloccati. Alla questione, l’ambasciata cinese e la Myanmar Airways hanno dichiarato che gli aerei trasportavano merci, tra cui frutti di mare. Gli attivisti birmani, però, non ne sono affatto convinti, e nemmeno Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, che parla di «trasporto poco chiaro di merci e personale». Il sospetto dei manifestanti è che con gli aerei arrivino numerosi strumenti ed esperti informatici, al fine di controllare tutti i sistemi di comunicazione del Paese.


Quel che è certo, è che molto probabilmente né i militari né i protestanti si fermeranno, a meno che, molto difficilmente, si arrivi a una risoluzione tra più Paesi e un’azione collettiva. La situazione, nel frattempo, continua ad aggravarsi: in alcuni quartieri è stata instaurata la legge marziale (che conferisce ulteriori poteri ai militari); sono state interrotte le reti della telefonia mobile; sempre più denunce raccontano di torture dei prigionieri; i cittadini sono costretti a barricarsi nei quartieri per difendersi dall’arrivo repentino dei militari. Domenica 14 marzo è stata, ad oggi, la giornata più nera, contando circa cinquanta vittime.


F. Cena

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