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Nuove frontiere della cosmologia con James Webb

Era circa sette mesi fa, precisamente l’11 luglio 2022, quando il presidente statunitense Joe Biden ebbe l’onore di svelare all’umanità la prima immagine scattata dal rivoluzionario James Webb Space Telescope (JWST), il risultato di venticinque anni di collaborazione tra ricercatori e ingegneri presso le agenzie spaziali di America, Europa e Canada. Lanciato dalle terre della Guyana francese il giorno di Natale del 2021, il progetto rappresenta l’evoluzione logica del celeberrimo telescopio Hubble, in sé uno dei dispositivi più ingegnosi mai costruiti nella storia. E proprio come accadde con il suo predecessore, nei pochi mesi trascorsi da quando è entrato in operazione, il neofita telescopio ha già suscitato con i suoi ritrovamenti grande scalpore nella comunità degli astronomi.


La prima immagine scattata dal telescopio.


La raison d'être del JWST è semplice: toccare dove Hubble non tocca, o meglio, dove non è concepito per toccare. Se infatti quest’ultimo può catturare soltanto le lunghezze d’onda dello spettro visibile e poco più — una scelta voluta che rispecchiava sia lo stato della tecnologia, sia le esigenze degli scienziati nei primi anni novanta — il suo successore, grazie a uno specchio di superficie sei volte maggiore e alla sua posizione strategica non nell’orbita terrestre, ma a un milione e mezzo di chilometri di distanza, è pensato specificamente per cogliere le onde lunghe dell’infrarosso profondo. A che pro, dunque, tutto questo affanno, un’impresa dal costo di ben due miliardi di dollari? Per capirlo è necessario un excursus scientifico, di quelli che mi stanno a cuore.


L’universo si sta espandendo: questo è il fatto, peraltro scoperto da Edwin Hubble in persona ormai un secolo fa, a cui qualsiasi nuova teoria nella cosmologia moderna deve dare conto. Non solo questo, ma l’espansione stessa sta accelerando, propulsa da una forza ignota che gli studiosi hanno soprannominato energia oscura. È utile a questo fine visualizzare l’universo come un elastico fissato a un estremo, con l’altro libero, e la sua espansione non tanto come creazione di spazio nuovo — che assolutamente non è — ma come allungamento dell’elastico dal capo libero. A mano a mano che viene tirato, la distanza tra due punti qualsiasi sull’elastico aumenta; analogamente, le galassie all’interno del cosmo in espansione vanno progressivamente allontanandosi l’una dall’altra.

Anche la radiazione elettromagnetica, in particolare, è soggetta al medesimo trattamento. Le onde luminose che viaggiano per l’universo sono stirate dall’espansione, accrescendo appunto nella loro lunghezza d’onda. Nell’ordine dei milioni di anni luce, l’effetto è così drastico da meritare un proprio nome, «redshift cosmologico», il quale denota lo scostamento del colore che osserviamo degli oggetti distanti verso il rosso rispetto al colore vero. La luce proveniente da una galassia sufficientemente remota può pertanto subire un tale redshift da abbandonare lo spettro visibile ed entrare in quello infrarosso, rendendosi impercettibile agli occhi dei telescopi tradizionali. Ecco perché, oltre a una certa distanza — circa 13,4 miliardi di anni luce, non poco di certo — Hubble vede solo buio.


D’altra parte, in astronomia, lontano nello spazio significa anche lontano nel tempo. Se desideriamo dunque studiare le galassie primordiali, quelle formatesi pochi milioni di anni dopo il Big Bang — che si stima sia avvenuto circa 13,8 miliardi di anni fa — e quindi indagare con appoggio empirico le fasi iniziali della cronologia dell’universo, è necessario andare a colmare i vuoti negli scatti di Hubble. Questo è esattamente il compito del JWST, il quale ha, difatti, già prodotto immagini straordinarie, sia nella forma che nel contenuto. Il telescopio, cento volte più potente del suo predecessore, ha permesso di vedere all’interno delle galassie con nitidezza ineguagliata, nonché di trovarne sempre più antiche, con il record attuale spettante a JADES-GS-z13-0, una galassia la cui luce origina da solamente duecento milioni di anni dopo l’inizio del tempo.

Con l’arrivo di uno strumento così formidabile, è naturale che tra i cosmologi sia presto nato un gran fermento, soprattutto per l’avvincente possibilità di sfruttarlo per porre fine ad annose dispute nella disciplina. Prima tra tutti è la tensione di Hubble, un disaccordo tra due risultati — ottenuti da procedure diverse, ma entrambe valide — relativi alla velocità di espansione dell’universo, detta costante di Hubble. Il primo metodo, che consiste in una catena di misurazioni per determinare il redshift delle luminosissime supernove, porta alla conclusione che il cosmo si sta espandendo più rapidamente di quanto prevede l’altro approccio, basato invece sulla distribuzione della radiazione cosmica di fondo, la debole traccia lasciata dal Big Bang che permea lo spazio. Dovesse il conflitto persistere, potrebbe indicare che il nostro modello cosmologico attuale, noto come ΛCDM, sia fondamentalmente sbagliato, nonostante la sua accordanza con la quasi totalità delle osservazioni sperimentali.


La prospettiva di dover accantonare le basi della cosmologia ha reso la comunità scientifica speranzosa di trovare risposte nel JWST. E risposte le sono state date, sebbene non quelle che avrebbe forse preferito. La ricalibrazione del metodo delle supernove, sulla base dei nuovi e precisi dati raccolti dal telescopio, ha fornito sostanzialmente gli stessi risultati di prima. Ulteriori verifiche sono necessarie, ma la crisi nella cosmologia, come è ormai nota, altro non ha fatto che aggravarsi. Una delle numerose soluzioni avanzate è che la densità dell’energia oscura sia variabile nel tempo, il che richiederebbe a ogni modo una revisione del modello cosmologico — senza contare che non sappiamo nemmeno cosa sia, dopo tutto, questa energia oscura.


L’inventiva del JWST si dimostra nella capacità oltre che di peggiorare i problemi, anche di crearne nuovi. Buona parte delle galassie primordiali rinvenute dal telescopio paiono essere molto più grandi di quanto possa sembrare possibile nell’ottica dell’evoluzione del cosmo. Affinché esistano oggetti di tale massa in quell’istante, o affinché così tanta materia si addensi in una regione così ristretta, serve secondo le conoscenze attuali un tempo ben maggiore rispetto a quello che calcoliamo essere trascorso dal Big Bang fino al suddetto istante, vale a dire due o trecento milioni di anni. Anche qui, però, abbondano le teorie sostitutive. La massa delle galassie viene derivata dalla sua luminosità, la quale supponiamo sia data dalle loro stelle; potrebbe essere che la formazione di stelle segua un pattern diverso nelle galassie primordiali, o che la luminosità derivi magari da un buco nero.


Limitandosi a parlare dei rompicapi sorti dai ritrovamenti del JWST non renderebbe giustizia a uno strumento in grado non solo di scoprire nuovi oggetti, ma anche di penetrare a fondo nelle strutture cosmiche già a noi note. Uno dei campi di studio più promettenti è quello delle cosiddette stelle di terza popolazione, ovvero le prime stelle venutesi a formare nell’universo. Prima solo speculazione teorica, alcuni scienziati ora credono di averne osservato, grazie alle nuove immagini, un esemplare in natura. Si tratta di palle di idrogeno ed elio gigantesche, fino a centomila volte più massicce del Sole, che attestano la prima concretizzazione della fusione nucleare nella storia dell’universo, un passo che ha cambiato radicalmente il suo corso. Le scoperte non finiscono qui: esopianeti, quasar, supernove, perfino nuove conoscenze sui pianeti stessi del Sistema Solare.

Qualunque siano le sorprese — piacevoli e non — che ci spettano per i prossimi dieci anni in cui il telescopio James Webb sarà operativo, ricordiamoci di come l’incontro tra la curiosità insaziabile e l’acuto ingegno dell’uomo abbia creato un meraviglioso gioiello tecnologico così avanzato, così impensabile soltanto una qualche decina di anni fa, puramente per il nobile fine di comprenderci meglio. Ed esultiamo al fatto che dopo la sua morte, e forse la nostra, rimarrà come testamento non solo materiale, ma spirituale, della nostra specie.

Il telescopio pienamente assemblato.




S. Gallina

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