top of page

Alla ricerca della teoria del tutto

«Le più importanti leggi fondamentali della scienza fisica sono tutte state scoperte», affermava nel 1902 il fisico Albert Michelson nel suo trattato Light Waves and Their Uses, «e queste sono così saldamente stabilite che la possibilità del loro soppiantamento in risposta a nuove scoperte è straordinariamente remota». Eppure, soltanto qualche anno dopo, avvenne una vera e propria rivoluzione di pensiero nel mondo scientifico. Dal rigido determinismo di Newton, che aveva regnato indiscusso per quasi tre secoli, si passò gradualmente, grazie ai contributi di grandi menti come Einstein, Planck, Bohr, de Broglie, Heisenberg, Schrödinger e molti altri, alla teoria quantistica delle probabilità che oggi costituisce la base per la quasi-totalità della nostra comprensione dell’universo. La scelta del “quasi” non è solo intenzionale, ma è anzi un’amara attenuazione della realtà. Esiste infatti un grosso e pressante problema di conciliazione all’interno della fisica che da oltre cent’anni ci impedisce di unificare tutte le nostre conoscenze in una singola, tanto agognata teoria del tutto.


Era il novembre 1915 quando il celebre Albert Einstein presentò per la prima volta la sua teoria della relatività generale, di fronte al pubblico dell’Accademia Prussiana delle Scienze. Il successo della sua relatività ristretta, pubblicata dieci anni prima, aveva già causato grande discussione nella comunità scientifica, ma se non altro era un potente preambolo alla vera scoperta. La nuova teoria, sviluppando ulteriormente il concetto di spaziotempo, nato dalla fusione delle tre dimensioni spaziali con quella temporale, presentò per la prima volta la gravità come una distorsione, o curvatura, del tessuto spaziotemporale di cui l’universo è essenzialmente costituito, causata dalla presenza di massa. In questo modo Einstein pose fine ad annose questioni legate alla gravità che la meccanica newtoniana non riusciva a risolvere, segnatamente l’anomala precessione dell’orbita di Mercurio, ma allo stesso tempo mantenne un assetto deterministico tipicamente classico, vale a dire uno nel quale, conoscendo i valori delle giuste variabili, si può sapere lo stato di un sistema fisico a qualsiasi punto nel passato e nel futuro. Tuttavia, nello stesso periodo andava affermandosi nel mondo della fisica una nuova prospettiva, che assegnava un ruolo centrale alle probabilità.


Mentre Einstein si occupava del moto dei grandi corpi, altri scienziati si stavano invece dedicando allo studio dell’estremamente piccolo. A partire da Max Planck, che nel 1900 scoprì che l’energia fosse quantizzata, ovvero composta da minuscole unità, si susseguirono numerose altre scoperte, tra cui spicca il dualismo onda-particella di de Broglie, per il quale ogni particella è descrivibile (e di fatto sia) come un’onda con una propria funzione. Lo sviluppo culminò con la famosa equazione di Schrödinger, che ora è considerata la più importante della meccanica quantistica. L’equazione descrive, in modo totalmente deterministico, l’evoluzione della cosiddetta funzione d’onda di una determinata particella, ossia quella funzione che ne descrive matematicamente la natura ondulatoria citata in precedenza. Sorse però un problema: come interpretare la funzione d’onda? Di grande rilevanza è l’interpretazione di Max Born, secondo la quale il quadrato del valore assoluto della funzione descriverebbe la probabilità che la particella in questione si trovi in una certa posizione in un dato istante di tempo. Ed è qui che avviene il passaggio da deterministico a probabilistico. Complementare a ciò è il principio di indeterminazione di Heisenberg, per cui è fisicamente impossibile conoscere con alta confidenza sia la posizione sia la quantità di moto di una particella allo stesso tempo, un fatto che deriva dalla sua duplice natura. Ma, sebbene la meccanica quantistica abbia senso in termini matematici, il suo reale significato è aperto a varie interpretazioni. Secondo l’interpretazione di Copenhagen, una delle più vecchie e conosciute, una particella non possiede una posizione definita finché non si effettua una misurazione, esistendo piuttosto in una sovrapposizione di stati quantici. Nel momento in cui è effettuata suddetta misurazione, la funzione d’onda “collassa” in un valore preciso, che è la posizione che si osserva sperimentalmente.


Le bizzarre rivelazioni di quegli anni, oltre a rovesciare in modo così cardinale la nostra concezione della natura dell'universo, portarono alla spaccatura tra il mondo microscopico e quello macroscopico che al giorno d’oggi non siamo ancora riusciti a sanare. La relatività generale di Einstein non solo perde senso matematico nel momento in cui è applicata al regno dei quanti, ma descrive la realtà in termini radicalmente diversi rispetto alla meccanica quantistica. Se in una teoria tutte le cause corrispondono a un sicuro effetto, nell’altra la realtà è governata da astruse onde di probabilità. Il terreno d'intesa tra i due sistemi è indubbiamente da trovare in una teoria che descriva la gravità a livello quantistico, ma di cosa questa si tratti non è al momento noto con certezza. Nonostante la quantità di ipotesi formulate nel corso dei decenni per dare una risposta, come la teoria delle stringhe, tutte presentano, in aggiunta a lacune nella forma, qualche forma di complicanza teorica che le rende difficili da verificare sperimentalmente.

La gravità è al momento il più pressante tassello mancante nella fisica, che una volta inserito ci permetterà senz'altro di fare un enorme passo avanti verso una unificata teoria del tutto. Ma non potremo affatto rimanere certi, come fece Michelson, che avremo esaurito il repertorio di segreti che l’universo tiene per sé.


S. Gallina


Fonti

Michelson, A. A. (1902). Light waves and their uses. Chicago, IL: University of Chicago Press.

71 views0 comments
bottom of page