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Declino e caduta di Che Guevara

Il 18 maggio 2023 è morto il generale Gary Prado Salmon che fu a capo del commando che catturò Che Guevara in Bolivia nel 1967. Un anno prima, l’8 marzo 2022, scomparve a ottant’anni Mario Teron, l’uomo sul quale ricadde il compito di giustiziarlo: si racconta che il Che lo esorto’ a sbrigarsi e che venne colpito da una dozzina di colpi al torace. Uno di questi gli trapassò il cuore e lo uccise all’istante. Teron è un uomo che visse di luce riflessa come Lee Oswald, che uccise Kennedy, o David Chapman che colpì John Lennon.


E la scomparsa di Che Guevara pose fine alla rivoluzione permanente in cui l’ex medico argentino credeva più che in ogni altra cosa. Dopo i fasti della rivoluzione castrista, superata la paura dello scontro con gli Stati Uniti al tempo della crisi di Cuba del 1962, il Che languiva all’Avana, dove poteva soltanto rilasciare dichiarazioni infuocate contro il capitalismo ai giornalisti di mezzo mondo e promuovere battaglie basate sulla produzione di zucchero e tabacco, da ministro dell’industria dell’isola caraibica.


Pertanto, il 3 ottobre 1965, scrisse una lettera di congedo a Fidel Castro, che nelle sue intenzioni doveva rimanere segreta, nella quale avvisa il compagno di lotta della sua volontà di lasciare Cuba per sempre e di passare in clandestinità, per portare la rivoluzione castrista in tutto il mondo, in ogni nazione in cui vivessero gli oppressi. La politica estera cubana era improntata sull’appoggio concreto alle rivolte popolari in tutta l’America latina e questo attizzava lo scontro con gli Stati Uniti, che non potevano permettere di venire scalzati dai paesi sudamericani. Il Che progettò rivolte in Argentina, ma nel suo paese d’origine la presenza di un regime forte e militarista sconsigliava di intraprendere la lotta rivoluzionaria. Si rivolse quindi ai paesi africani che, nei primi anni sessanta, cercavano l’emancipazione dal colonialismo.


Il Che si fece coinvolgere nella lotta di liberazione dal Congo contro il Belgio, ma l’avventura cubana fu sostanzialmente un fallimento: Fidel Castro dovette organizzare un’operazione di salvataggio per farlo uscire dalla nazione africana, dove i belgi lo braccavano senza tregua e dove gli stessi africani non lo amavano, poiché preferivano di gran lunga un regime tribale autoctono alla dittatura del proletariato. Il Che fece base a Praga e da lì iniziò a elaborare con Fidel Castro la sua nuova avventura. La Bolivia sembrava il luogo ideale da dove far ripartire la rivoluzione permanente. Il paese andino era caratterizzato da una forte classe operaia, formata dai minatori che con il loro lavoro consentivano l’esportazione di metalli nobili in tutto il mondo. Il presidente Barrientes rappresentava in modo dignitoso la fragile democrazia boliviana; era l’arretratezza del paese, la povertà della popolazione che secondo Che Guevara avrebbero potuto dare sostegno alla lotta rivoluzionaria: i guerriglieri nella sierra e gli agenti sotto copertura nelle città avrebbero potuto tramite le rivolte popolari e la guerriglia urbana portare il paese alla destabilizzazione e all’ascesa della rivoluzione. D’altronde il Che era un teorico della guerriglia, che nel suo libro Pasajes de la guerra revolucionaria (El Congo) descrive minuziosamente quale debba essere la personalità del guerrigliero e il suo modo di agire e di rapportarsi al popolo, al partito, e ai compagni di lotta.


Fidel sperava che la destabilizzazione della Bolivia distraesse l’attenzione degli USA da Cuba, ma la segretezza dell’operazione era indispensabile: ancora non si era placata l’insofferenza per l’avventura cubana nel Congo dell’Unione Sovietica, che in quegli anni cercava di giocare una partita geopolitica in Indocina contro l’invadenza dei cinesi diventati ostili alla stessa e l’America in Vietnam. Pertanto dopo avere creato linee di collegamento con il partito comunista boliviano il Che arrivò in Bolivia in piena clandestinità il 15 ottobre 1966, con un gruppo di sessanta guerriglieri cubani scelti personalmente, al quale avrebbero dovuto aggiungersi volontari boliviani. L’intera operazione clandestina venne minata fin dall’inizio dal mancato appoggio dei boliviani, perché né il partito comunista locale né il popolo supportavano i guerriglieri. Ben presto il commando cubano rimase isolato dai collegamenti cittadini e dovette arretrare verso il Rio Grande. Il gruppo si divise in due per cercare di coprire una parte maggiore del territorio, ma così facendo si indebolì. Risorse, medicine, apparecchiature radio vennero perse, perché i nascondigli venivano segnalati alla polizia dagli abitanti del luogo. Il Che restò privo di ogni collegamento col gruppo della retroguardia, che pochi mesi dopo venne sterminato in un agguato mentre i guerriglieri cercavano di guadare il fiume. Allo stesso tempo il fatto che il Che fosse in Bolivia era diventato di pubblico dominio. Il presidente Johnson veniva regolarmente informato dalla CIA circa i movimenti dei cubani. Fidel Castro all’Avana aveva interrotto ogni collegamento con i guerriglieri e pertanto il Che non poteva venire informato della reale gravità della sua situazione.


A quel punto i cubani avrebbero potuto organizzare un nuovo tentativo di salvataggio, in maniera relativamente semplice, paracadutando dei rinforzi nella zona dove avevano localizzato il gruppo l’ultima volta. Si ipotizza addirittura che avrebbero potuto mandare nuove forze per riprendere la lotta. In realtà Fidel Castro decise di non decidere e lasciò che gli eventi precipitassero, o meglio che la Storia facesse il suo corso. Il Che, malato, demoralizzato, braccato, scriveva della sua solitudine nei diari che vennero trovati quando lo catturarono. Gli ultimi giorni di settembre del 1967 alcuni contadini lo segnalarono alle autorità nella zona del villaggio di Alto Seco nei pressi di La Higuera. Alcuni guerriglieri vennero catturati e uccisi mentre altri diedero l’esatta posizione di Che Guevara e dei superstiti all’esercito boliviano. Il capitano Gary Prado Salmon si mise al comando dell’operazione e l’8 ottobre 1967 riuscì a catturare il Che che tentava di scappare dalla vallata attraverso la gola di Yuro, mentre si arrampicava con altri due guerriglieri su una parete di roccia.


Si dice che catturato pronunciasse questa frase: «Non sparate. Sono Che Guevara e valgo più da vivo che da morto». L’opinione di alcuni studiosi e biografi è che il Che abbia affrontato la morte con estremo coraggio, cercando il martirio, secondo quell’idea di figura cristologica, di capro espiatorio della rivoluzione che lui stesso si era attribuito. Alcuni personaggi presenti all’interrogatorio notturno e all’esecuzione come «Felix El Gato», l’agente CIA Felix Hernandez, raccontano che il Che rimase sgomento quando comprese che l’avrebbero ucciso. Egli sostiene fermamente però che l’ordine non venne dalla CIA che lo avrebbe voluto portare a Panama per interrogarlo, bensì dal governo boliviano, timoroso che la prigionia e il processo avrebbero portato a rivolte nel paese e a tentativi dei commando cubani di liberarlo. Il 9 ottobre 1967, all’alba, Che Guevara venne fucilato e quindi seppellito in un luogo tenuto segreto; il cadavere subì l’amputazione delle mani che oggi sono conservate a Cuba nel palazzo presidenziale.


Il ribelle sconfitto e ucciso alla soglia dei 40 anni venne immediatamente riconosciuto dai giovani che pochi mesi dopo, nel 1968, avrebbero riempito le piazze di tutta Europa e dell’America, come un simbolo potente, uno stendardo da erigere sulle barricate. L’immagine del fotografo Korda del Che venne portata nei cortei di mezzo mondo e incarnò perfettamente lo spirito dell’epoca, mentre all’Avana l’immagine di Fidel si consumava inesorabilmente in un triste autunno.


G. Bracconi (3ª B)

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