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Matteo Messina Denaro: una storia di mafia del XXI secolo

Mi risulta dai magistrati di Firenze che Messina Denaro sia venuto al Teatro Parioli durante il Maurizio Costanzo Show per vedere se si poteva fare lì l'attentato, sarebbe stata una strage. Hanno deciso di farlo quando uscivo dal Parioli. — Maurizio Costanzo

Il noto latitante Matteo Messina Denaro è stato arrestato il 16 gennaio 2023 alla clinica Maddalena di Palermo, mentre si sottoponeva a cure chemioterapiche. I carabinieri del ROS hanno arrestato il capomafia trapanese, latitante da più di trent'anni, grazie alla scoperta della falsa identità sotto la quale si nascondeva, che aveva già utilizzato presso la clinica per sottoporsi a cure e operazioni.


La vita del boss

Nato a Castelvetrano, in provincia di Trapani, il 26 aprile 1962, è figlio di Francesco Messina Denaro, affiliato a Cosa Nostra proveniente da un contesto rurale, simile a quello di altri uomini d'onore, come Totò Riina e Bernardo Provenzano. Matteo Messina Denaro si fa notare sin dai primi anni novanta per i sanguinosi atti criminali, compiuti durante le guerre di mafia, nelle quali parteggiava per i Corleonesi di Totò Riina. Diviene in breve tempo capo della mafia trapanese, che comanda dal suo mandamento di Castelvetrano ed è menzionato come un uomo di potere nei racconti dei pentiti dell'epoca. Fa parte del commando di sangue al quale Totò Riina affida l'attentato a Maurizio Costanzo e concorre a organizzare gli attentati a Falcone e Borsellino, quelli di via Palestro a Milano e al patrimonio artistico nazionale, alla chiesa di San Giorgio al Velabro, alla basilica di San Giovanni Laterano a Roma e all'Accademia dei Georgofili a Firenze.


A questo punto entra in clandestinità, continuando la sua attività criminale direttamente, nonché quale mandante di omicidi efferati. I suoi grandi accusatori sono i pentiti Baldassarre Di Maggio, Totuccio Contorno, Antonio Patti e Vincenzo Sinacori e questo porta alla sua condanna all'ergastolo in contumacia nell'anno 2000. Sfugge alla cattura per trent'anni, muovendosi sempre nella sua provincia di appartenenza. Di lui si conoscono alcuni avvistamenti in Germania, Tunisia, Spagna, ma non si riuscirà mai a concludere l’arresto, a volte per fughe di notizie, altre volte, secondo alcune stampa,a causa di connivenze ad alto livello.


Una macchia indelebile perseguita la sua reputazione: per vendicarsi di un pentito coinvolto nella strage di Capaci che aveva fatto il suo nome ordina il rapimento e la morte del figlio, il piccolo Giuseppe Di Matteo, che viene strangolato e sciolto nell'acido.


Il covo del boss

Matteo Messina Denaro era di casa a Trapani, nella campagna di Castelvetrano e Campobello di Mazara. I carabinieri del ROS hanno scoperto almeno tre covi nel raggio di pochi chilometri nei quali il boss viveva, incontrava parenti, familiari ed amanti e comandava il mandamento. Una campagna arida e assolata alle spalle, il Mar Mediterraneo e la costa della Tunisia all'orizzonte, Mozia, Erice e Selinunte nei dintorni a ricordare il grande passato della sua terra.


Da quanto riportano le indagini in corso si crede che molti suoi concittadini lo abbiano aiutato nella latitanza, in primis il geometra Andrea Bonafede, che gli ha ceduto l'identità con la quale è stato arrestato, l'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, che fungeva da tramite per lo scambio dei «pizzini» coi mafiosi di Cosa Nostra, l'autista e le persone che forse inconsapevoli della sua identità collaborano a gestire gli spostamenti e le sue normali esigenze.


Quanti sapevano e tacevano? Chi taceva per connivenza e chi per paura? Per la società civile è doveroso prendere le distanze dall'accaduto: sono tantissimi i cittadini onesti che non vogliono avere nulla a che fare con la mafia; tuttavia è sicuramente complicato vivere in un contesto simile senza venire toccati nel quotidiano da contatti, vessazioni e intimidazioni ed è necessario capire la vita difficile delle persone che vivono nelle roccaforti di mafia e il sacrificio costante delle forze dell'ordine impegnate sul campo per la difesa della legalità.



Matteo Messina Denaro.


Il mito dell'Idra

Narratore dell'orgoglio di essere siciliani e integerrimi avversari della mafia è stato lo scrittore Leonardo Sciascia, che nei suoi libri affronta l'argomento e con una preveggenza quasi ventennale denuncia la presenza di Cosa nostra nel cuore del sistema sociale, politico ed economico dell'intera nazione. Nando Dalla Chiesa, figlio del generale che pagò con la vita la sua battaglia alla mafia, racconta nei suoi saggi di sociologia la mafia del nuovo millennio, sempre più inserita nell'economia reale, anche e soprattutto nelle grandi città del nord. Ad un livello più conosciuto e di facile comprensione per tutti, la lunga serie televisiva degli anni ottanta e novanta, La piovra, descrive Cosa nostra come di una struttura tentacolare, impossibile da sconfiggere per le sue molteplici diramazioni. Forse più calzante alla mafia è il mito dell'Idra di Lerna, seconda fatica di Ercole, per la quale, per ogni testa recisa ne rinascevano altre.


Tutti ci chiediamo a questo punto chi sia il nuovo capo di Cosa nostra, e se Messina Denaro si sia in realtà consegnato alle forze dell'ordine dopo avere effettuato il passaggio di consegne a un nuovo boss, tuttavia il suo arresto è sicuramente un momento storico per la nostra società. Finalmente un pericoloso criminale è assicurato alla giustizia, secondo il regime del carcere duro dell’art. 41-bis che qualcuno — guarda caso — in questi giorni ha portato alla ribalta dei mezzi di comunicazione, invocando l'abolizione. Questa misura detentiva, in seguito alle stragi di Capaci e di Via D'Amelio, in cui morirono i giudici Falcone e Borsellino, passata più volte indenne al vaglio della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell'uomo, venne introdotta per contrastare la criminalità organizzata non solo mafiosa ma anche terroristica, che continuava a impartire ordini dal carcere agli affiliati in libertà ed era in grado di compiere delitti e atti eversivi anche all'interno degli istituti di pena: tutti ci ricordiamo del caffè al veleno di Michele Sindona, nella cella 26 del carcere dell'Ucciardone a Palermo.


Lo scopo del 41-bis è di ridurre ogni tipo di collegamento tra dentro e fuori e tra gli stessi detenuti all'interno del carcere, che siano stati condannati o siano in attesa di giudizio per reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, eversivo o terroristico e che presentino elementi tali da far ritenere il persistere dei collegamenti con l'associazione criminale a cui appartengono. L'effettiva pericolosità del detenuto e il suo inserimento personale nell'associazione mafiosa fa sì che a Matteo Messina Denaro, che ricopre una posizione verticistica, si applichi questo regime e quindi che incontri limitazioni nei colloqui, nelle telefonate, nella corrispondenza, che gli sia vietato la ricezione di libri, riviste, televisione e l'uso di mezzi di comunicazione, che incontri limitazioni nella socialità, che deve svolgersi in aree riservate, sia nel tempo che nello spazio. Le limitazioni imposte ai detenuti da questo regime si rendono necessarie per prevenire i contatti, per non rendere il carcere il luogo nel quale si tengono continui “consigli di amministrazione" tra mafiosi.

Non sappiamo se Matteo Messina Denaro, attualmente detenuto nel carcere dell'Aquila, uscirà da questo regime detentivo. Per il momento siamo contenti di poter ringraziare le forze dell'ordine per aver assicurato questo pericoloso latitante alla giustizia e auspichiamo insieme a tutta la società civile la riconquista effettiva di questa provincia siciliana alla legalità.


G. Bracconi

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