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Writer's pictureAlessandra Bugatti

Le donne della Divina Commedia

In occasione della Giornata internazionale della donna, avvenuta l'8 marzo, e del Dantedì, celebrato il 25, ripercorriamo la Divina Commedia andando ad approfondire le principali figure femminili dell’opera.


«Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense". Queste parole da lor ci fuor porte.» Inferno V, vv. 100-108

Queste sono le parole che Francesca da Rimini, nel Canto V dell’Inferno, rivolge a Dante e Virgilio, che in quel momento si trovavano nel II cerchio della voragine infernale, quello dei lussuriosi. Scesi nel cerchio, i due, tra il buio e il vento, incontrano molte anime illustri — tra le quali ricordiamo Minosse, Didone ed Elena di Troia — ma Dante è particolarmente attratto da due anime, un uomo e una donna, che volano unite. Egli si rivolge a loro, che escono dalla schiera e si avvicinano ai due poeti. La donna, Francesca, narra la loro storia e il motivo per il quale si trovano lì a Dante, mentre l’uomo, Paolo, tace. Francesca era la moglie di Gianciotto Malatesta e Paolo era il cognato della donna; i due un giorno stavano leggendo le gesta di Lancillotto e, nel momento in cui il cavaliere bacia la regina Ginevra, Paolo bacia Francesca. Dice Francesca «Caina attende chi a vita ci spense», riferendosi a Gianciotto, colui che ordinò la loro uccisione. Il personaggio di Francesca suscita particolare interesse al lettore grazie all’umanizzazione che traspare da questa figura: la donna è consapevole della sua colpa e del fatto che l’amore è una cosa a cui non ha saputo resistere. Francesca, vinta da questa forza estranea, rappresenta anche la purezza femminile della sincerità, della gentilezza e della delicatezza. È, infatti, molto emozionante per Dante la sua storia, tanto da svenire: «e caddi come corpo morto cade».


«"Deh, quando tu sarai tornato al mondo e riposato de la lunga via", seguitò 'l terzo spirito al secondo, "ricorditi di me, che son la Pia; Siena mi fé, disfecemi Maremma: salsi colui che ’nnanellata pria disposando m’avea con la sua gemma".» Purgatorio V, vv. 130-136

Successivamente, nella terza schiera del monte del Purgatorio, nella quale si trovano i negligenti a pentirsi morti di morte violenta, Dante e la sua guida incontrano l’anima di Pia, un personaggio su cui manca ogni forma di documentazione; per questa ragione, ricostruiamo la sua vita secondo i primi commentatori del poeta. Pia era la sposa di Nello di Inghiramo dei Pannocchieschi, che, come per il caso di Francesca, ordinò a un suo servo di ucciderla, facendola precipitare da una finestra del castello maremmano vicino a Massa Marittima «disfecemi Maremma». Secondo i primi studiosi del caso, la donna apparteneva alla casata dei Tolomei, anche se i documenti della famiglia non lo confermano. Anche la causa del delitto è incerta, potrebbe essere stata la gelosia del marito a seguito di un atto di infedeltà, oppure la volontà di Nello di sposare un’altra donna, Margherita Aldobrandeschi. Purtroppo la mancanza di documenti scritti attendibili non conferma la storia di Pia presentata da Dante nei suoi versi.


«"Voi siete nuovi, e forse perch’io rido", cominciò ella, "in questo luogo eletto a l’umana natura per suo nido, maravigliando tienvi alcun sospetto; ma luce rende il salmo Delectasti, che puote disnebbiar vostro intelletto. E tu che se’ dinanzi e mi pregasti, dì s’altro vuoli udir; ch’i’ venni presta ad ogne tua question tanto che basti".» Purgatorio XXVIII, vv. 76-84

Arrivati nel Paradiso terrestre, Dante e Virgilio incontrano «una donna soletta che si gia», Matelda, personaggio che riprende la pastorella di una lirica di Cavalcanti (In un boschetto trova’ pasturella). In un contesto come quello dell’Eden, e il topos del locus amoenus, Dante riesce a bilanciare le allusioni erotiche, accentuate da riferimenti mitologici e sfumate dallo stilnovismo delle immagini con la cristianità del canto e del luogo in cui è ambientato. Del personaggio di Matelda, come nel caso di Pia, non si hanno molte informazioni e probabilmente è inventato. Molti commentatori la riconducono a Matilde di Canossa (1046-1115) o a Matilde di Hackenborn (1241-ca. 1299). Alcuni credono che sia simbolo della giustizia perduta dall’uomo con la colpa di Adamo, e quindi riconducibile al personaggio dell’Ecloga IV di Virgilio, Astrea. Altri ancora pensano invece che sia una delle compagne di Beatrice in Vita nuova: Giovanna precede e anticipa la donna, motivo per il quale Dante la chiama Primavera (“prima verrà”). Così come Giovanna-Primavera precede Beatrice in Vita nuova, anche Matelda la anticipa nella Divina Commedia. Infatti, la conclusione sulla quale molti critici si basano è che Matelda sia l’allegoria della felicità terrena che anticipa quella celeste: la parola “Matelda” letta da destra a sinistra è, infatti, “ad letam”, che ricorda l’espressione “ad laetam”. Matelda è colei che conduce Dante alla donna lieta nella sua beatitudine: Beatrice.


Nel Canto XXX del Purgatorio, Virgilio è scomparso e Dante, triste di aver perso la sua guida, vede Beatrice, la cui apparizione è significativa:

«Io vidi già nel cominciar del giorno la parte orïental tutta rosata, e l’altro ciel di bel sereno addorno; e la faccia del sol nascere ombrata, sì che per temperanza di vapori l’occhio la sostenea lunga fïata: così dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva e ricadeva in giù dentro e di fori, sovra candido vel cinta d’uliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva.» Purgatorio XXX, vv. 22-33

Per descrivere questa solenne apparizione, Dante fa uso dei colori, in particolare per quanto riguarda la figura di Beatrice: il suo capo è circondato da un ramo d’ulivo verde come il suo manto, e coperta da un velo bianco candido e la sua veste è «di color di fiamma viva». Questi colori, oltre ad essere coerenti con la sua immagine che Dante ci descrive in Vita nuova, hanno un significato simbolico, poiché rappresentano le tre virtù teologali: la speranza (verde), la fede (bianco) e la carità (rosso). Anche se ritroviamo delle analogie tra la Commedia e Vita nuova, il personaggio di Beatrice assume caratteristiche differenti: in Vita nuova, infatti, è la guida alla salvezza, ma risulta muta e distaccata, divenendo un personaggio passivo. Invece, nella Divina Commedia, è guida attiva di Dante, al quale spiegherà molte nozioni dottrinali e per il quale proverà affetto e compassione. Beatrice, quindi, assume un valore simbolico attivo: è «donna di virtù», è grazia e verità, che cooperano alla salvezza dell’umanità, è conoscenza, a differenza di Virgilio, una guida “incompleta”, poiché ha illustrato in modo approfondito a Dante solo l’Inferno e non il Purgatorio. Beatrice conosce ogni elemento soprannaturale, mantenendo una certa attenzione anche al mondo terreno, condannando l’avidità che schiaccia gli uomini.


Il Canto III del Paradiso, infine, è ambientato nel primo cielo, il cielo della Luna, nel quale sono presenti gli spiriti mancanti ai voti, tutti gli spiriti che in vita hanno mancato al voto di castità. Situazione opposta a quella della Monaca di Monza, Gertrude, della quale scrive Alessandro Manzoni nei Promessi sposi: la sua storia è quella di una monacazione forzata, come per la protagonista di Storia di una capinera di Giovanni Verga, diversa dalle storie di Piccarda Donati e Costanza d’Altavilla.

«"La nostra carità non serra porte a giusta voglia, se non come quella che vuol simile a sé tutta sua corte. I’ fui nel mondo vergine sorella; e se la mente tua ben sé riguarda, non mi ti celerà l’esser più bella, ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda, che, posta qui con questi altri beati, beata sono in la spera più tarda. Li nostri affetti, che solo infiammati son nel piacer de lo Spirito Santo, letizian del suo ordine formati. E questa sorte che par giù cotanto, però n’è data, perché fuor negletti li nostri voti, e vòti in alcun canto".» Paradiso III, vv. 43-57

Figlia di Simone Donati e sorella di Corso e Forese, che Dante cita nei Canti XXIII e XXIV del Purgatorio, Piccarda Donati faceva parte delle monache clarisse e, per volere di Corso, fu rapita dal monastero e data in moglie a Rossellino della Tosa, un membro del partito dei Neri, capeggiato proprio dal fratello. Il mistero di Piccarda ruota intorno alla verginità della donna dopo l’uscita dal convento: alcuni pensano che sia morta il giorno delle nozze, mentre altri credono che sia deceduta a causa della lebbra perché non fosse “contaminata carnalmente” dal marito.

«Quest’è la luce de la gran Costanza che del secondo vento di Soave generò ’l terzo e l’ultima possanza".» Paradiso III, vv. 118-120

In questa terzina, Dante descrive, in poche parole, l’albero genealogico all’interno del quale collochiamo Costanza d’Altavilla, figlia del re normanno Ruggero II e sposa di Enrico IV di Svevia «secondo vento di Soave», secondo perché figlio dell’imperatore Federico I Barbarossa. L’unione tra i due «generò ’l terzo e l’ultima possanza», Federico II di Svevia, futuro imperatore e re di Napoli e Sicilia. Dante accoglie la teoria secondo la quale sarebbe stata tolta dal monastero per poter sposare Enrico IV di Svevia, rappresentando, così, insieme a Piccarda Donati, il simbolo della donna medievale come “bene di scambio”.


A. Bugatti


Bibliografia

Tornotti, G. (2011). Lo dolce lume. Pearson Italia.

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