Natale di Sangue: 25 dicembre 1920
Gabriele d’Annunzio, poeta, romanziere, drammaturgo, intellettuale e uomo d’azione, forse amò più dell’appellativo di «Vate» quello di «Comandante», che i suoi arditi, il popolo e i legionari di Fiume gli tributarono. Un capo, una guida, un padre spirituale per tutta una generazione, precursore assoluto di Che Guevara.
L’avventura fiumana inizia il 12 settembre 1919 e termina il 30 dicembre 1920. In quei sedici mesi Gabriele d’Annunzio alla testa dei suoi legionari governò la città di Fiume, sulla costa dalmata, opponendosi con fiero disprezzo alla decisione del trattato di Versailles di attribuire il territorio allo Stato jugoslavo, sorto in base allo stesso, sotto il controllo congiunto di Inglesi, Francesi e Americani. Al comandante il trattato di Versailles non era per niente piaciuto. Fiume, l’Istria e la Dalmazia erano territori in cui la presenza italiana era da secoli dominante e l’Italia era scesa in guerra a fianco della Triplice Intesa anche in forza delle rassicurazioni, fatte all’epoca al governo italiano, che tali terre in caso di vittoria sarebbero state assegnate all’Italia.
D'Annunzio scriveva sui giornali di «vittoria mutilata» e anche di tradimento ai giovani — che avevano immolato le proprie vite — perpetrato dal governo italiano, che peraltro non poteva opporsi alle decisioni del trattato senza perdere la propria credibilità internazionale. Per questo l’11 settembre 1919, dopo una mobilitazione semiclandestina di ufficiali dell’esercito italiano ed ex combattenti, la maggior parte appartenenti ai battaglioni degli arditi delle fiamme nere della Prima guerra mondiale, D’Annunzio dalla sua residenza veneziana della Casa Rossa, nella quale aveva composto il romanzo Il fuoco, protagonista Stelio Effren, dandy intellettuale senza freni che tanto gli assomigliava, partì alla testa della colonna in marcia verso la caserma friulana di Ronchi, oggi chiamata Ronchi dei Legionari in onore dell’impresa.
L’intento degli ammutinati era di occupare la caserma, convincere i soldati italiani a unirsi a loro e da lì dilagare verso Fiume. Si è detto che la marcia su Fiume abbia ispirato nei modi e nei tempi la marcia su Roma. Sicuramente Mussolini si ispirò all’impresa “dannunziana”, saccheggiandone modi, inni, simboli e stendardi, ma l’avventura fiumana di D’Annunzio si discosta per molti versi dall’ideologia fascista. L’arrivo a Fiume fu preceduto da scontri con l’esercito regolare italiano e con i battaglioni delle forze occupanti francesi e inglesi, ma il comandante riuscì a prendere la città per l’entusiasmo della popolazione di origine italiana.
Terminata la battaglia per il possesso della città il Vate raggiunse il municipio dove tenne dal balcone il primo di tanti discorsi fiumani, di cui riporto un significativo passaggio:
Il vero esercito italiano è qui, formato da voi, combattenti senza macchia e senza paura. qui l’esercito della vittoria, disgregato da corruttori e traditori, si riannoda, si rinsalda, si risolleva, si riaccende, rifolgora. Aver fatto parte di questa audacissima impresa, o miei compagni, sarà per ciascuno di voi il più puro titolo di gloria. Qui rimarremo ottimamente. Viva l’esercito di Fiume. Viva l’Italia.
L’impresa fiumana colpì tutta la società italiana. Il governo in carica con Francesco Saverio Nitti vedeva montare l’ira della Società delle Nazioni e del presidente americano Wilson per la violazione del diritto internazionale e dei trattati di pace. L’opinione pubblica italiana che aveva appoggiato l’entrata in guerra per ragioni nazionalistiche parteggiava per il Vate, per il suo coraggio scellerato; i dadaisti tedeschi rivendicavano la natura dadaista dell’impresa fiumana. Il clima sregolato e libertario che si respirava nella città ha spesso favorito la lettura dell’impresa come un baccanale dionisiaco, in cui tutto era permesso e in cui i reduci della Prima guerra mondiale potevano ancora “menare le mani” e rimanere fuori dagli schemi. In realtà il Comandante era all’opera per realizzare un esperimento politico innovativo e sicuramente rivoluzionario.
D’Annunzio voleva rifondare la legislazione fiumana con la tanto celebrata Carta del Carnaro. Nel predetto documento venivano garantite la libertà di parola, stampa, pensiero, riunione e associazione. Ogni discriminazione in base al sesso, la razza o la religione era abolita e tutti i cittadini, uomini e donne avrebbero avuto uguali diritti e sarebbero stati uguali davanti alla legge. La forma di governo sarebbe stata quella della democrazia diretta, che avrebbe garantito la sovranità collettiva, in cui tutti i cittadini a partire dai vent’anni avrebbero potuto eleggere i loro rappresentanti e farsi eleggere in un’assemblea legislativa. In politica estera D’Annunzio si scagliò contro la Società delle Nazioni per l’autodeterminazione dei popoli. Fiume italiana fu vista come un faro di libertà per gli oppressi di tutto il mondo.
Ecco alcuni estratti dei proclami di D’Annunzio dai resoconti della stampa internazionale dell’epoca:
Il comandante D’Annunzio e i suoi legionari non vogliono imporre né al loro paese né al mondo una nuova forma di nazionalismo integrale.
Nessun secondo fine militarista anima coloro che sono convenuti sul Carnaro sospinto dalla sola fiamma del sacrificio.
La città di Fiume, il suo capo, i difensori sono fieramente decisi a resistere fino al trionfo dell’ideale di fratellanza umana che ti tiene stretti.
Il diritto dei popoli di disporre di se stessi proclamato così frequentemente, cacciato sotto i piedi deve essere alla fine consacrato.
Alla Società delle Nazioni D’Annunzio ha contrapposto la Lega dei popoli oppressi riconoscendo l’indipendenza della Repubblica di Irlanda del Sinn Fein e della Russia bolscevica: «Gli irlandesi, gli indiani, i maomettani sono di fatti non liberi e l’eroismo delle mie truppe rafforzerà questi popoli nella fede che anche per essi la redenzione verrà». Secondo il Vate proprio la sua dichiarazione contro gli Stati capitalisti e imperialisti decretò di fatto il martirio della Città di Vita.
Con il trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 Italia e Jugoslavia accettavano il ritorno della Dalmazia a quest’ultima e lo status di Fiume come città libera, negando il diritto di Fiume e dei fiumani di disporre di se stessi liberamente. D’Annunzio rifiutò di andarsene e occupò le isole jugoslave di Arbe e Veglia per creare delle difese marittime attorno alla città. Le truppe italiane del generale Caviglia, schierate contro la città, il 22 dicembre diedero inizio ai combattimenti del Natale di Sangue. Lo stesso D’Annunzio venne quasi ucciso dagli ordigni sparati sul municipio dal cacciatorpediniere Andrea Doria. La fine del sogno fiumano venne decretata il 26 dicembre, quando dopo una breve tregua la città venne nuovamente bombardata. Il 30 dicembre il comandante rassegnò i suoi poteri nelle mani del Podestà e del Popolo di Fiume preferendo evitare l’ultimo assalto e un nuovo bombardamento. Disse D’Annunzio nel suo ultimo discorso ai legionari:
La città assassinata non urla più nel suo buio inerte, sotto la pioggia molle. Gettiamo stanotte un’alalà funebre sulla città assassinata. A chi l’ignoto? A noi.
G. Bracconi, R. Gambarini
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