Supposizioni sulle ragioni di un anonimato letterario
La figura di Elena Ferrante è circondata da un’aura di mistero per l’anonimato letterario nel quale ha scelto di rifugiarsi. Sebbene si siano susseguite numerose e insensate investigazioni che vogliono identificarla con Anita Raja, l’identità dell’autrice partenopea resta ancora, fortunatamente, sconosciuta. È spontaneo dunque chiedersi perché una scrittrice che ha ricevuto ampio riconoscimento internazionale abbia deciso di celarsi dietro le sue parole senza esporsi pubblicamente. Le ragioni di questa scelta, da quanto ho potuto trarre dalle sue opere, sono più profonde di quanto in un primo momento si immagini e sfiorano questioni quali la perdita dell’individualità causata dalla scrittura, la conseguente riappropriazione di se stessi e il senso stesso dello scrivere.
Ne La frantumaglia, una raccolta contenente lettere a carte scritte dal 1991 al 2016, la Ferrante spiega come per lei la scrittura non nasca da un bisogno di proiettare la propria persona al di fuori di sé, bensì da una necessità di liberazione da qualcosa di opprimente. Il suo stile è perciò coinvolgente e personale poiché frutto di una disperata impressione di urgenza. In questo senso, in una lettera a Goffredo Fofi datata 1995 e mai spedita, scrive:
«So per esperienza (una pessima esperienza) che un accidente qualsiasi può indebolire l'impressione di necessità delle pagine che sto scrivendo; e quando quell'impressione sbiadisce, è il lavoro di mesi che se ne va, non mi resta che aspettare un'altra occasione.»
Non sorprende perciò che questo causi un forte senso di straniamento nei confronti dei suoi scritti, in quanto materializzazione di una parte di sé da cui si vuole distaccare. Questa particolarità potrebbe essere collegata al concetto di “smarginatura”, la perdita dei margini, che pervade l’intera opera dell’autrice: lo straniamento è tale che, quando scrive, diviene almeno in parte un’altra persona, Elena Ferrante appunto, per poi tornare a essere la donna ignota ai più della sua quotidianità. È perciò insensato mostrarsi al pubblico, poiché l’identità di colei che ha scritto i tanto apprezzati romanzi non coincide con la sua persona. Paradossalmente, quindi, un’identità fasulla è più capace di trasmettere un’impressione reale della vita. Nella stessa lettera, dunque, scrive:
«I vecchi miti sull'ispirazione forse dicevano almeno una verità: quando si fa un lavoro creativo si è abitati da altro, in qualche misura si diventa altro. Ma quando si smette di scrivere si ridiventa se stessi, la persona che comunemente si è, nelle occupazioni, nei pensieri, nel linguaggio. Perciò ora sono di nuovo io, me ne sto qui, faccio le cose di tutti i giorni, non c'entro col libro o, per dir meglio, ci sono entrata, ma adesso non posso più entrarci. Né d'altra parte il libro può rientrare in me. Non mi resta quindi che proteggermi dai suoi effetti, ed è quello che cerco di fare. L'ho scritto per liberarmene, non per restarne prigioniera.»
Inoltre, la Ferrante afferma di non scrivere di eventi biografici, bensì di fondere tra loro situazioni non sempre legate a lei, e per questo motivo di temere che la sua storia possa essere indelebilmente associata a situazioni pressoché fittizie di cui ha scritto. Sempre nella lettera a Goffredo Fofi, l’autrice ammette di non avere il temperamento adatto per sostenere il peso di una vita pubblica e che la sua vita privata è un semplice agglomerato di cose apprese e accumulate nel tempo. A tal proposito aggiunge:
«Per limiti soprattutto caratteriali, che ho fatto fatica ad accettare ma dentro i quali oggi vivo senza troppe smanie e senza troppi rimpianti, non mi sono mai esposta pubblicamente, non ho preso partito, non ho il coraggio fisico che in genere è richiesto per queste cose. Perciò oggi mi è difficile attribuirmi una storia personale che non sia tutta privata (un percorso mio di letture, simpatie libresche) e quindi ininteressante. Sono cresciuta per addizione di cose viste o ascoltate o lette o scarabocchiate, nient'altro.»
Tuttavia, ciò non significa che non vi siano tracce di lei nei suoi libri. Il racconto del rapporto madre-figlia, delle amicizie femminili e del flusso storico da una generazione all’altra, il tutto sullo sfondo di una Napoli vissuta da un punto di vista prettamente emotivo, ha di certo un tratto profondamente personale. Ragion per cui scrivendone può sembrare di tradire se stessa e la propria, seppur piccola e privata, esistenza. Questa è una delle tante ragioni per cui sceglie di mantenere il suo anonimato: non seguire il percorso dei suoi romanzi le permette di riappropriarsi almeno parzialmente della sua persona per poi utilizzarla nuovamente per scrivere di nuovo. In riferimento a ciò, nella lettera a Goffredo Fofi scrive:
«Quando il libro è finito, è come se si fosse stati frugati con eccessiva intimità e non si desidera altro che riguadagnare distanza, ritornare integri.»
Desidero concludere dicendo che, nella mia visione, non resta che mettere da parte la curiosità e accettare che forse l’identità letteraria Elena Ferrante ha forse più cose da dire del suo anonimo corrispettivo quotidiano.
E. Tortora
Fonti
Ferrante, E. (2016). La frantumaglia. E/O.
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