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La scienza nascente della coscienza

Negli ultimi decenni, con intersezione tra filosofia della mente e neuroscienza, un nuovo campo del sapere ha cominciato a emergere. Il suo oggetto di investigazione è qualcosa di estremamente familiare — anzi, si potrebbe dire forse l’unica cosa che realmente conosciamo — ma su cui forse non ci siamo mai soffermati: il fenomeno della coscienza. La definizione di quest’ultima è piuttosto flessibile. In senso colloquiale, la coscienza è la consapevolezza che ciascuno ha dei propri pensieri, sensazioni, emozioni, ambienti; di noi stessi e del mondo che ci circonda. Tuttavia, credo che questa definizione non colga l’essenza di ciò che vuol dire essere coscienti. Per trovarne una migliore, consideriamo la tua situazione attuale di lettore.


In questo momento, i tuoi occhi stanno agevolmente scorrendo sulle sequenze di lettere che compongono questa frase. Spostando gli occhi altrove, noterai una realtà piena di oggetti, forme, colori, luci e ombre. Potresti sentire in sottofondo una varietà di suoni, dal rumore del traffico, al parlottio della folla, alla musica della tua playlist. Potresti percepire odori, o gustando qualcosa, o avvertire la presa salda che la tua mano ha sul cellulare o giornalino. Ognuna di queste sensazioni appare chiaramente distinta e reale, dotata di esistenza propria, al pari di tutte le altre cose appartenenti al mondo esterno. Eppure, facciamo un passo indietro e riflettiamo. Quelle forme nette e quei colori vividi che vedi sono in fondo insiemi di onde elettromagnetiche informi e incolori, che vengono captati dalla retina e trasformati in segnali elettrici. Le dolci melodie del tuo cantante preferito sono in verità successioni di vibrazioni mute delle molecole d’aria tra te e l’origine del suono, che picchiettano contro il timpano. L’intenso profumo della rosa e il caratteristico sapore del gelato sono combinazioni di diverse molecole inodori e insapori. La presa salda della tua mano è solamente dei generici impulsi elettrici trasmessi da speciali recettori al cervello. In un universo popolato da particelle e onde inanimate e amorfe, di cui noi stessi siamo costituiti, da dove potrà mai nascere la nostra esperienza interna e individuale di un mondo ricco di oggetti, sensazioni, qualità e quantità, o in una parola, di fenomenologia? Perché il blu è proprio blu e non rosso, perché il tulipano profuma in un certo modo, perché il caffè ha quel determinato sapore?


La riflessione appena proposta è nota come l’hard problem della coscienza, un’espressione coniata dal filosofo australiano David Chalmers negli anni novanta. L’hard problem concerne la relazione che sussiste tra le esperienze coscienti e i meccanismi biochimici del cervello; citando Chalmers, si tratta della domanda esistenziale: «Perché mai dovrebbero i processi fisici dare origine a un universo interno?» A questo contrasta l’easy problem della coscienza, che mira invece a spiegare in termini di attività neurale le molteplici funzioni e comportamenti del cervello, dall'analisi dei segnali sensoriali alla produzione di linguaggio. Bisogna sottolineare che l’easy problem non è affatto easy; la nostra conoscenza delle fittamente intrecciate connessioni cerebrali è ancora limitata, anche se la neuroscienza fa progressi ogni giorno, sfruttando tecniche di brain imaging innovative e modelli digitali. Rimane comunque il fatto che, in linea di massima, ogni singolo meccanismo cerebrale può essere portato alla luce fino all’ultima molecola. Questo discorso non vale per l’hard problem della coscienza. Anche una conoscenza completa della configurazione di ciascuna particella nel cervello in un dato istante non sarebbe sufficiente per spiegare l’emergenza di un universo esperienziale interno.


Nella storia della filosofia, le origini dell’hard problem della coscienza sono rintracciabili fino ai Greci antichi, e gli approcci filosofici attuali alla questione sono diversi. A un estremo troviamo il fisicalismo, che è l’assunzione metafisica su cui si basa la scienza. Per i fisicalisti l’universo consiste interamente di cose fisiche e niente vi si trova al di sopra; in questa visione la coscienza emerge naturalmente, in modi ancora ignoti, da speciali configurazioni di particelle. Agli antipodi si colloca l’idealismo, per cui la realtà si basa completamente su un qualche principio spirituale o mentale. In mezzo si situa il dualismo del filosofo René Descartes, che differenzia la sostanza della mente e, dunque, della coscienza — res cogitans — da quella della materia — res extensa. Infine, c’è da menzionare la millenaria dottrina del panpsichismo, secondo la quale la coscienza è una proprietà fondamentale dell’universo, ed è presente in gradi differenti in ogni cosa. Nonostante la varietà delle idee appena descritte, nessuna fornisce istruzioni utili alla scienza per indagare il fenomeno della coscienza, intesa come la caratteristica fenomenologia dell’esperienza. Per questo motivo il neuroscienziato inglese Anil Seth, nel suo ultimo libro Being You: A New Science of Consciousness — che consiglio vivamente — ha proposto un obiettivo diverso per lo studio della coscienza, che affronti il cosiddetto real problem: la spiegazione, la previsione e il controllo delle proprietà fenomenologiche dell’esperienza cosciente. Si distingue sia dall’hard problem, perché non si occupa di come o perché la coscienza esista nell’universo a prescindere, sia da quello easy, poiché studia la fenomenologia che deriva dalle funzioni e dai comportamenti del cervello, invece di limitarsi solo all’analisi di quest’ultimi.


È utilizzando questo approccio che in tempi recenti, come esplorato nel libro di Seth, la scienza della coscienza, anche se ancora in stato neonatale, ha mosso importanti passi. Dagli studi primordiali, volti a stabilire se la coscienza si presentasse in livelli — che pare essere il caso — e quindi a misurarla — un tema attualmente controverso — si giunse nel 2006 alla prima grande idea che affrontasse l’hard problem, ad opera del neuroscienziato statunitense Giulio Tononi. Secondo la sua teoria dell’informazione integrata, la coscienza è semplicemente informazione che presenta un alto grado di integrazione. Il cervello è un organo che mostra attività complessa, risultante in molta informazione, e i cui costituenti — i neuroni — sono profondamente integrati l’uno con l’altro. Ciò suggerirebbe un livello alto di coscienza. La teoria di Tononi, però, si applica ben oltre il cervello; ogni sistema fisico presenterebbe un minimo livello di coscienza, in spirito panpsichista. Le limitazioni di una teoria che fronteggia l’hard problem sono però numerose. Primo tra tutti è l’incapacità di spiegare gli aspetti fenomenologici dell’esperienza; la teoria di Tononi, infatti, si limita solo a identificare la coscienza in qualcosa di fisico e quantificabile. Serve quindi una nuova idea, che faccia fronte al real problem della coscienza.


Nel libro Seth dedica molte pagine a esporre la tesi su cui lui, il suo team e altri scienziati stanno lavorando dai primi anni 2010. Iniziamo con un'immagine mentale: il cervello, un ammasso di neuroni interconnessi, risiede in una cavità buia, senza collegamenti diretti al mondo esterno. Riceve di continuo segnali elettrici grezzi dai vari recettori sensoriali nel corpo. L’idea chiave è che il cervello formula incessantemente ipotesi sulle cause dei segnali sensoriali. Queste ipotesi partono da aspettative preliminari che il cervello ha dei segnali sensoriali, che poi vengono aggiornate nel momento in cui tali segnali sensoriali giungono dai recettori, al fine di minimizzare lo scarto tra le aspettative e i dati in arrivo, in un processo di inferenza bayesiana. Il colore rosso che osservi, per esempio, non è altro che la miglior ipotesi che il tuo cervello ha formulato del modo in cui la luce si sia riflessa su una superficie. La percezione del mondo, in modo controintuitivo, non nasce dai recettori che in prima linea captano e poi trasmettono informazione al cervello, muovendosi dall’esterno verso l’interno. È il cervello a formulare ipotesi su cosa c’è là fuori, previsioni poi — in condizioni normali — mantenute vicine alla realtà dai segnali sensoriali, in un flusso dall’interno verso l’esterno. L’esperienza individuale di ognuno di noi è, in conclusione, una sorta di allucinazione controllata; allucinazioni che proviamo ogni momento che guardiamo un bel paesaggio, ascoltiamo il nostro cantante preferito, o percepiamo la presa della mano, o in una parola, sempre.


S. Gallina


Bibliografia

Greene, B. (2021). Until the End of Time: Mind, Matter, and Our Search for Meaning in an Evolving Universe. Penguin Books.

Seth, A. K. (2021). Being You: A New Science of Consciousness. Faber and Faber.

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