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Ragione contro dogma: può la scienza fornirci la moralità?

La pandemia di COVID-19 ha costretto e continua a costringere i governi del mondo a prendere decisioni significative, imponendo forti misure di salute pubblica che, seppur finalizzate ad arginare la diffusione del virus, hanno anche un notevole impatto sull’economia e sulla società. Proprio per questo motivo si sono trovati a dover fare compromessi sia nello scegliere le misure più bilanciate per gestire l’epidemia, sia nel mediare gli schieramenti politici opposti. Il compromesso è stato infatti spesso caratterizzato tra scienza e politica, come se fossero forze contrastanti, il che ha rispolverato due questioni centrali dell'etica moderna: può la scienza dirci cosa è giusto o sbagliato, e possiamo fidarci completamente della stessa, data la sua natura mutevole?


Prima di parlare di scienza è utile fare un confronto con un’altra influente forza nella società: la religione. La religione, intesa come complesso di credenze, regole e usanze, trascurando momentaneamente questioni di carattere sociologico, nacque anche come modo per soddisfare un bisogno psicologico essenziale: dare significato a tutto ciò che ci circonda. Questo, nella fattispecie, si traduce nello spiegare le osservazioni della natura sia da un punto di vista meccanicistico, ossia in relazione al loro funzionamento e alle loro cause, sia da un punto di vista teleologico, ossia in relazione al loro scopo e al loro significato. La religione dunque si evolse per millenni non solo come parte integrante dell’identità personale e di gruppo, ma anche come caposaldo a cui affidarsi per interpretare il mondo nei suoi aspetti positivi e negativi, e per dare senso alla propria esistenza. E così, gli umani primitivi cominciarono a inventare storie, o miti, sull’origine del mondo, la natura degli astri e la composizione del corpo umano, che poi tramandarono per generazioni, inizialmente per via orale e rudimentali pittogrammi, e più tardi per iscritto. Dopodiché, subentrando la funzione sociologica di identità citata in precedenza, alle storie degli dèi si affiancò un sistema di norme e precetti morali, includendo anche usanze e pratiche come i riti, per rafforzare i valori già trasmessi dai miti, completando la definizione di religione fornita all’inizio.


Alla base delle religioni teiste c’è qualcosa di preciso: i dogmi. Si tratta di asserzioni di carattere universale che vengono idealmente accettate dai fedeli come insindacabilmente vere, e giustificate attraverso l’onnicomprensivo principio di autorità divina. Non offrono alcuna spiegazione di tipo “scientifico” della loro validità, poiché si pongono superiori alla scienza e, più generalmente, all’ambito della ragione umana stessa. In risposta, la ragione qualifica naturalmente il dogma come irrazionale, ossia privo di fondamento logico. Per la religione, dunque, la ragione umana ha dei limiti, oltre ai quali non ha più significato tentare di applicarla e diventa necessario ricorrere a una forza divina che trascende la realtà. Nonostante ciò, si può dire che oggigiorno l’opinione più condivisa è che la scienza, ovvero il grande corpus di verità derivate dal ragionamento sull’osservazione, malgrado il considerevole numero di questioni ancora irrisolte, si sia dimostrata più efficace della religione in termini di descrizione e analisi meccanicistica della realtà. Questo perché la differenza chiave tra dogma e scienza è che, mentre la prima è eterna e immobile, in virtù del fatto che è scollegata dall’esperienza, la seconda è per sua natura mutevole, in quanto le sue verità cambiano al variare dell’evidenza disponibile. Ad esempio, fino alla fine del XIX secolo, la comunità medica credeva che le malattie infettive si trasmettessero attraverso una forma di “aria cattiva”, detta miasma, invece che attraverso microrganismi, ovvero i comuni germi, come è attualmente ritenuto. Da qui sorge un problema, ossia quello dell’affidabilità della scienza per prendere decisioni etiche e politiche, che ne rivela un altro più fondamentale: può la scienza persino pronunciarsi su temi di moralità?


In filosofia, lo studio del significato dei concetti di “giusto” e “sbagliato”, detto metaetica, si divide alla radice in due posizioni principali: il cognitivismo, per cui le frasi etiche sono proposizioni che possono essere vere o false, e il non-cognitivismo, per cui non sono proposizioni con valore di verità. Una forma di cognitivismo è il realismo morale, per cui le proposizioni etiche si riferiscono a proprietà oggettive del mondo. A sua volta il realismo morale è separato in due filoni di pensiero: il naturalismo etico, che è di interesse nel nostro caso, e il non-naturalismo etico. Il naturalismo etico sostiene che i concetti morali sono in ultima analisi definibili in termini di fatti, ossia asserzioni veritiere, sulla natura; rende dunque nulla la distinzione concettuale tra fatti e valori morali, affermata per la prima volta dal filosofo scozzese David Hume nel XVIII secolo. In particolare, secondo una forma di naturalismo etico opportunamente denominata scienza della moralità, al progredire dell’indagine scientifica anche la nostra conoscenza della moralità si arricchisce. Da qui nasce l’idea che la scienza può fornirci la moralità, che vede tra i suoi principali esponenti il filosofo e neuroscienziato statunitense Sam Harris, con il suo libro The Moral Landscape: How Science Can Determine Human Values. Secondo Harris, una persona che delinea una potenziale vita “migliore” o una “peggiore” per se stessi sta in realtà descrivendo una moltitudine di fatti naturali sul proprio cervello e, dato che la scienza concerne tutti i fatti naturali, quest’ultima può mostrare quali corsi d’azione permettono alla persona di perseguire una vita migliore.


Il libro di Harris e il naturalismo etico in generale sono stati oggetto di critica assidua da parte di numerosi filosofi e intellettuali. Il problema principale sembra essere la fallacia naturalistica, o il tentare di trarre conclusioni normative o prescrittive, ossia come una determinata cosa deve essere, da premesse descrittive, ossia come una determinata cosa è. Il noto critico del naturalismo etico George Edward Moore riassume il sentimento non-naturalista nel cosiddetto problema della domanda aperta: se la proprietà naturale X è equivalente a “giusto”, allora la domanda «È vero che X è giusto?» è priva di significato; ma la domanda «È vero che X è giusto?» non è priva di significato, essendo invece una domanda aperta, e quindi X non è equivalente a “giusto”. Il dibattito è acceso e non vi è consenso scientifico né filosofico: la prima domanda, «Può la scienza dirci cosa è giusto e sbagliato?», è quindi irrisolta. D’altra parte per la seconda, «Possiamo fidarci completamente della scienza, data la sua natura mutevole?», la risposta è diretta: non abbiamo alternative migliori.


S. Gallina


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